PIANO MAGIC – Part-Monster
(Homesleep/Green Ufos, 2007)

Se nell’attuale panorama musicale vi è un artista dall’impronta definita e riconoscibile, eppure capace di esprimersi secondo una notevole varietà di forme, questi è certamente Glen Johnson, che, in parallelo con tante altre esperienze artistiche, a due anni dall’acclamato “Disaffected”, torna a farsi sentire con la sua creatura prediletta e più longeva.
Prima di addentrarsi in questo nuovo album di Piano Magic è allora il caso di riordinare le tessere recenti del mosaico artistico di Johnson, operazione indispensabile per comprendere la genesi di “Part-Monster”, disco che – è bene chiarirlo da subito – tende a discostarsi abbastanza dal suo immediato predecessore dal punto di vista musicale, mantenendo invece, e anzi sviluppando, l’approccio emotivo di tutte le sue ultime opere.

Esercitatosi nuovamente con una forma elettronica solo in apparenza glaciale nell’Ep “Incurable” e relegati nel progetto Future Conditional gli omaggi alla dark-wave elettronica già presenti in “Disaffected”, Johnson affida qui in egual misura a chitarre mai così decise e ad atmosfere al tempo stesso serene e sinistre la prosecuzione del suo percorso attraverso le debolezze dell’animo umano.
Dopo i tormenti di “The Troubled Sleep Of Piano Magic” e la consapevolezza dell’inevitabile sopraffazione da parte della sofferenza di “Disaffected”, “Part-Monster” rappresenta la risposta parziale di Johnson alle ragioni dell’inquietudine del suo animo come qualcosa di intimamente correlato alla natura umana, pur tuttavia veicolato da emozioni e sentimenti.

L’espressione musicale di simili conclusioni non poteva quindi non essere molto immediata e a tratti persino ruvida. Evidente prova di ciò è fornita dalle due versioni di brani già editi presenti in questo lavoro, entrambe tradotte in chiave profondamente elettrica: i synth anni 80 di “The Last Engineer” (già nell’album a nome Future Conditional) vengono, infatti, trasformati in ritmiche secche, innestate su una distorsione persistente e sulle abituali atmosfere spettrali, mentre l’algida veste elettronica di “Incurable” lascia ora spazio a ondate di feedback, che rendono lacerante l’effetto di un testo – tra i più significativi della poetica di Glen Johnson – incentrato su “malattia sentimentale”, dubbi latenti e simulacri di parole non pronunciate.

Che l’essenza del suono scelto per quest’album consista nella riscoperta di distorsioni chitarristiche, corpose quanto evanescenti, è perfettamente esemplificato dallo strumentale “Great Escapes”, ove ritmiche e chitarre incalzanti s’inseguono in brevi vortici, temperati soltanto dal caratteristico suono avvolgente, ormai marchio distintivo di quasi tutte le composizioni di Glen Johnson. Sulla stessa linea si colloca anche il brano dall’impatto più diretto dell’intero lavoro, ovvero “The King Cannot Be Found”, che, sotto una forma solo in apparenza banale, riproduce le atmosfere claustrofobiche di “Night Of The Hunter”, prima di esplodere in un finale dall’inconsueto piglio post-punk. Compiuta consacrazione di questo spirito, che anima la metà esatta delle tracce di “Part-Monster”, proviene infine dall’ultimo dei brani “tirati”, “Saints Preserve Us”, sommerso da una cascata distorsiva dal sapore quasi di tributo ai suoni dei primi anni 90 e in particolare ai My Bloody Valentine, cui il pensiero corre inevitabilmente, anche in considerazione del fatto che la produzione dell’album è opera di quel Guy Fixsen, responsabile, tra l’altro, anche dell’immenso “Loveless”.

La restante metà del lavoro è invece occupata da brani più compassati, perfettamente coerenti con la fisionomia della scrittura di Johnson, così come espressa in opere ormai risalenti della sua discografia, quali “Low Birth Weight” e “Artists’ Rifles”. I punti di contatto con quei lavori sono molteplici, soprattutto nella ballata incantata “England’s Always Better (As You’re Pulling Away)”, ove la nostalgia viaggia morbida tra paesaggi bucolici virati in seppia, mentre arrangiamenti di fiati, più malinconici che solenni, incorniciano la voce profonda di Simon Rivers (The Bitter Springs), il cui ultimo contributo a un album di Piano Magic risaliva proprio ai tempi di “Low Birth Weight”. Ulteriori analogie con il passato della band si riscontrano in alcuni dei passi più efficaci dell’album, ovvero nell’altra ballata di desolato folk metropolitano (sic) “Cities & Factories”, allucinata e cullante allo stesso tempo, e in “Soldier Song”, brano che si muove con la grazia sinistra di un carillon, i cui ingranaggi ripetitivi sono ingentiliti dalla sempre più convincente interpretazione di Angéle David-Guillou.

Su un registro non dissimile si collocano, infine, anche i due brani (relativamente) lievi, che bilanciano l’abituale cupezza dello stile di Piano Magic: così, “Halfway Through” ha un andamento quasi solare, anch’esso impreziosito da fiati eleganti, mentre la conclusiva title track giunge ad alleviare il precedente travaglio elettrico, disegnando un placido finale acustico dal testo tristemente autoironico (“I’m tired of being tired”) che, ancora una volta, rende l’idea dello spirito sotteso a quest’opera.

La pluralità di riferimenti sopra evidenziata conferma senza dubbio la definizione di “uomo che vive nel passato”, attribuitasi dallo stesso Glen Johnson; eppure, una volta superate le superficiali impressioni di “già sentito”, le tante sfaccettature presenti in “Part-Monster”, lo rendono un’opera come sempre sincera e per nulla priva di pathos, nonostante la rinnovata immediatezza espressiva della band disperda in parte l’alone di mistero e il continuo gusto della sorpresa che caratterizzavano i lavori precedenti. Non per questo si può però parlare di album prevedibile o al di sotto di aspettative invero molto elevate, proprio alla luce di quanto sin qui dimostrato da Piano Magic. Allora, se anche alla fine del suo ascolto si profila netta la sensazione che la classe compositiva di Glen Johnson si manifesti al meglio in una veste maggiormente elettronica, sarebbe un peccato di severità rimproverare a colpa di “Part-Monster” il far seguito a due autentici album-capolavoro, dei quali esso non riesce a eguagliare il livello complessivo, ma pure conferma l’innegabile qualità e versatilità di scrittura.

(pubblicato su ondarock.it)

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