intervista: ATTILIO NOVELLINO

Protagonista di uno degli album ambient-drone più stimolanti del 2012, il sound-artist calabrese Attilio Novellino racconta delle ispirazioni che presiedono alle sue creazioni musicali e alle tante collaborazioni nelle quali è impegnato. Scopriamo insieme a lui come le sue sperimentazioni abbiano trovato cittadinanza nel difficile contesto italiano, in particolare meridionale.

Nei tre anni che separano “Anonymous Said” da “Through Glass” hai cambiato denominazione artistica e modalità di diffusione (da netlabel a etichetta discografica), ma in parte anche la “densità” della tua musica appare accresciuta: come hai percepito e vissuto questi cambiamenti?
Dopo il mio primo album ho avvertito la necessità di stampare un disco su supporto fisico, non tanto per una questione legata alla fruizione della musica, ma piuttosto perché sentivo l’esigenza di garantire al mio lavoro un’esistenza corporea, una veste grafica degna oltre che una maggiore credibilità.
Fortunatamente ho incontrato Alex Vatagin e Peter Holy che hanno apprezzato il mio disco dimostrandosi interessati a produrlo. Lavorare con una etichetta discografica è senza dubbio un’esperienza positiva, mi piace molto sentire la presenza di qualcun altro dietro la mia musica, direi quindi che il passaggio è stato estremamente felice.
Da un po’ di tempo pensavo che il mio vecchio moniker Un Vortice di Bassa Pressione. avesse fatto ormai il suo tempo, me lo portavo dietro più che altro per ragioni affettive. Alex mi ha fatto notare che ostinarsi a tenerlo avrebbe comportato non poche difficoltà di comprensione per il pubblico straniero, così mi sono convinto ad adottare il mio vero nome. Credo sia stato un bene.
Per quanto riguarda “Through Glass” ho scelto di concentrarmi particolarmente su alcuni aspetti della mia musica, di accentuarne il peso all’interno dei brani provando a spingerli all’estremo. Volevo ottenere un sound che avesse un impatto maggiore rispetto a quello del mio lavoro precedente e produrre un disco dotato anche di una particolare coerenza stilistica. L’accresciuta densità della mia musica è funzionale a questo disegno e allo stesso tempo ne rappresenta la conseguenza diretta.

Oltre alla tua attività solista, hai già intrapreso alcune collaborazioni e contatti anche internazionali: che esperienze ne hai tratto? C’è qualche artista con cui ti piacerebbe lavorare in futuro?
Negli ultimi anni ho dedicato parecchio spazio alle collaborazioni, perché credo nell’importanza delle relazioni umane e artistiche.
Ho rapporti con artisti italiani e stranieri che stimo e che sento vicini, con alcuni di questi mi è già capitato di lavorare, con altri invece c’è la comune intenzione di farlo in futuro.
Sicuramente tutte le collaborazioni che ho portato avanti fino ad ora mi hanno arricchito, facendomi percepire il suono secondo prospettive inedite, inusuali o anche leggermente differenti dalla mia, regalando, ogni volta, nuove sfumature alla mia musica. Sono state un’importante occasione di crescita.
Bisogna mettere in conto anche difficoltà, incomprensioni e scontri dovuti alle diverse sensibilità dei soggetti coinvolti che, per quanto affini, non sono mai completamente coincidenti. Ma credo che tali inconvenienti facciano parte della fisiologia di ogni rapporto umano e come tali vadano accettati.
Più che indicare nomi di artisti con i quali vorrei collaborare, penso che nel futuro mi piacerebbe riuscire a fare musica con chi mi è realmente amico. Sarebbe una gran bella cosa.

Al di là delle collaborazioni esplicite, quali riconoscimenti hai ricevuto dall’estero?
Devo dire che “Through Glass” è stato accolto molto bene dalla stampa internazionale, numerose riviste e webzine straniere che hanno recensito il disco lo hanno apprezzato, mettendone a fuoco le caratteristiche essenziali. Continuo a ricevere, con gran piacere, apprezzamenti da artisti che stimo o da semplici ascoltatori stranieri. Sono stato invitato a partecipare ad alcune compilation per label estere, tra cui Basses Frequences e Futuresequence. noltre sono stato invitato al “Rhiz” di Vienna per un live set in occasione del quarto compleanno di Valeot, è stata una bella esperienza e ho ricevuto un’ottima accoglienza, spero di avere altre opportunità simili in futuro.

Sarà banale, ma forse potrebbe ancora stupire vedere uno sperimentatore elettronico italiano, tanto più proveniente dal profondo sud della penisola. Come vivi la tua collocazione geografica? Ritieni che il tuo ambiente d’origine abbia influenzato il tuo approccio alla musica?
La Calabria è una Regione particolarmente diffidente rispetto a quelle proposte artistiche che non affondano le proprie radici in tradizioni culturali ben consolidate sul territorio e che per essere apprezzate richiedono una particolare propensione verso linguaggi contemporanei.
Chiunque, da queste parti, intenda muoversi sui territori della sperimentazione è consapevole di avere pochissimi interlocutori con i quali poter dialogare, mi riferisco ad artisti affini, operatori culturali attenti e pubblico potenzialmente interessato a proposte che divergono dai modelli diffusi. Le occasioni di partecipare ad eventi stimolanti da un punto di vista artistico sono ridotte specialmente in ambito musicale. Nella mia città, escludendo “Diagonal Jazz”, rassegna musicale a cavallo tra jazz e sperimentazione che Riccardo Mottola porta avanti caparbiamente da diciotto anni con competenza, gusto e notevole coraggio, non esiste un contenitore interessato a recepire istanze sonore innovative e proporle al pubblico.
Tutto questo, unito a una posizione geografica periferica, mi fa percepire un isolamento forse ancora più marcato rispetto a quello di chi vive in un centro ugualmente piccolo ma situato al centro-nord, anche se la recente apertura di un museo dedicato all’arte contemporanea in città e le iniziative di alcune fondazioni mi portano a pensare che qualcosa stia cambiando.
L’ambiente nel quale vivo e sono cresciuto ha avuto un’indubbia influenza sulla mia vita, è probabile quindi che abbia giocato un ruolo anche nel mio approccio alla musica, sebbene in modo indiretto. Ho sempre pensato che la mia generazione abbia avuto ben poche possibilità di sviluppare gusto e sensibilità contemporanee, a causa delle scelte discutibili di chi ha curato la programmazione musicale nella città e abbia corso seriamente il rischio di assimilare, quasi passivamente, i modelli che questo ambiente stagnante e autoreferenziale si è ostinato a veicolare negli anni con superficialità e approssimazione.
Internet ha rappresentato per me una via d’uscita decisiva, mi ha fornito gli strumenti necessari per superare i pregiudizi e i limiti propri di questo contesto, consentendomi di sviluppare la mia sensibilità musicale in piena autonomia. Difficilmente avrei potuto farlo senza le possibilità offerte dalla rete.

Benché parcellizzata lunga tutta la penisola, in Italia si sta sviluppando una reticolare scena elettronica, che offre numerose produzioni di qualità: qual è la tua impressione a riguardo e quali dischi italiani ti hanno colpito di più ultimamente?
Sicuramente in Italia ci sono ottimi artisti che si muovono nel campo della musica elettronica, autori di lavori di spessore. Nonostante i contatti fra gli artisti e i tentativi di creare punti di raccordo non manchino, registro con rammarico una certa carenza di dialogo, un generalizzato disinteresse per la condivisione, nonché una notevole difficoltà a coprire le distanze che separano fisicamente le diverse anime di questa scena. A ciò bisogna aggiungere poi che le poche etichette attente al genere continuano a impostare i rapporti secondo logiche perlopiù territoriali e che gli “operatori culturali” guardano quasi esclusivamente ai grandi nomi esteri quando si tratta di organizzare festival e altri eventi che potrebbero costituire un momento di incontro importante.
Per quanto riguarda i dischi, citerei sicuramente “Urania” degli Architeuthis Rex, “Vicino” di Giulio Aldinucci aka Obsil, “Not in my family tree” di Easychord, “Domestic Tapes vol. II” di Leastupperbound,  e un disco che deve ancora uscire ma che ho avuto modo di assaggiare in anteprima, “Tuinals” di Valerio Cosi.

I software con i quali plasmi la tua musica rappresentano per te un mero supporto “tecnico” o incidono anche sul momento creativo?
I software per me sono sicuramente uno strumento creativo importante. I miei brani possono partire indifferentemente da uno strumento analogico o dalla manipolazione di un software. Non distinguo nettamente le fasi che mi portano ad avere le varie tracce sul mio sequencer. Sicuramente il momento che mi esalta maggiormente e’ il missaggio delle varie tracce, credo che sia l’atto più importante della mia composizione nonché quello che mi diverte di più. Purtroppo la strada per arrivarci è spesso lunga e non sempre facile da percorrere, come ho già spiegato in precedenza.

Qual è il tuo stato d’animo ideale per comporre? Dipende dalle emozioni momentanee, oppure le tue composizioni sono più studiate?
Il mio stato d’animo influenza pesantemente le mie composizioni e la mia stessa possibilità di fare musica. In alcuni periodi, ad esempio, sono assolutamente privo di stimoli compositivi, mentre in altri mi trovo a lavorare per molte ore di fila e a passare le notti sveglio.
Non credo di poter indicare però uno stato d’animo ideale per la composizione. Sicuramente ho composto alcuni brani di getto, subito dopo aver vissuto un’ emozione particolarmente forte e il materiale registrato seguendo questo impulso è spesso dotato di un’intensità assolutamente irripetibile. Fortunatamente mi è possibile riflettere in un secondo momento e lavorare su queste registrazioni con la dovuta calma, e precisione. L’evoluzione progressiva che porta alla versione finale di un brano spesso è molto lenta e passa attraverso diverse versioni dello stesso pezzo che vanno ad accumularsi inesorabilmente nella memoria dei miei computer.
Questo procedimento in due fasi mi permette di valorizzare entrambi i momenti del processo compositivo, fotografando l’emozione per non lasciarla scappare e poi ragionandoci su anche per molto tempo.
“Through Glass” contiene materiale registrato e messo da parte moltissimi anni fa, che ho scelto di utilizzare proprio perché dotato di quel plusvalore.

Sul tuo sito definisci la tua musica “drone-gaze”: quali elementi pensi di aver tratto dai due termini della definizione? E quali sono i tuoi riferimenti prediletti nell’uno e nell’altro ambito?
Ho usato quel termine in modo anche un po’ ironico in realtà, però mi pare sintetizzare le caratteristiche del mio suono attuale abbastanza bene.
Dallo shoegaze penso di aver tratto l’attitudine ad innalzare un muro di suono fatto di stratificazioni melodiche, l’uso “sconsiderato” del riverbero e delle distorsioni, la passione per i suoni saturi e le voci distanti, impalpabili ed eteree, una certa “confusa” malinconia di fondo. Ma a differenza delle classiche band del genere non propongo questi elementi all’interno di brani che hanno una struttura pop-rock e una melodia orecchiabile, ma li inserisco in composizioni che procedono in senso orizzontale, stratificandosi e acquistando progressivamente uno spessore, il che fa muovere l’insieme su dinamiche vicine al drone.
Dello shoegaze ho sempre amato due band storiche come Slowdive e My Bloody Valentine e inserirei un moderno “shoegazer” quale Christian Fennesz, per quanto riguarda il drone invece potrei citare Campbell Kneale con il suo vecchio progetto Birchville Cat Motel, Lawrence English, Jefre Cantu-Ledesma e Tim Hecker, ciascuno di loro ha prodotto splendidi lavori per certi versi ascrivibili alla drone music.

Quale peso attribuisci all’aspetto concettuale e a quello visuale nell’elaborazione e nella presentazione delle tue opere?
Ritengo importante che dietro un lavoro discografico ci sia un’elaborazione concettuale di una certa profondità che renda chiari gli intenti, le finalità di un artista ed aiuti a capire la dimensione della sua opera, ma presto molta attenzione a scongiurare sconfinamenti in atteggiamenti cattedratico-accademici nei quali è facile incorrere quando si cerca di fornire una rappresentazione teorica della propria musica.
Sono convinto che il suono trovi in se stesso una giustificazione che legittima pienamente la sua esistenza, che rende superflua ogni ulteriore indagine e che è va al di là di qualsiasi parola.
Anche quello visuale è un aspetto che mi sta molto a cuore e che non potrei certamente ignorare, dal momento che tendo ad associare colori e rappresentazioni grafiche ai suoni. Credo si chiami sinestesia.
La fotografa Veronica Vallini mi ha aiutato a dare una veste grafica al lavoro curando l’artwork del disco, con le sue bellissime opere fotografiche e permettendomi di utilizzarne altre per il mio sito web –unvorticedibassapressione.com-, mentre Cristina Buttignoni e Roberto Bressa, aka freccia&caburo, hanno realizzato un video per “Sirens” che credo faccia da perfetto supporto visuale al brano. Voglio ringraziarli ancora una volta per la collaborazione e per lo straordinario supporto che continuano a offrirmi.
Ho collaborato in passato con alcuni video artist, ma le nostre collaborazioni si sono esaurite in una singola performance, mi piacerebbe poter intraprendere rapporti più stabili per il futuro.

In particolare, come nasce la fascinazione per il vetro, materiale al quale hai di fatto dedicato “Through Glass”? Trovi che le immagini associate al titolo del disco e a quelli dei brani ne simboleggino adeguatamente il contenuto?
Tutto è iniziato con un set di fotografie di luci filtrate attraverso il vetro, che ho realizzato giocando molto con la saturazione delle diverse tonalità di colore.
Ho riflettuto sui sorprendenti risultati che si ottengono indirizzando un fascio di luce contro un corpo trasparente quale il vetro o ponendolo a contatto con la superficie corporea di organismi marini come le meduse, dotate di simili caratteristiche di trasparenza, e con alcuni abitanti degli abissi, luogo nel quale la luce non è presente in condizioni naturali. Il vetro e i pesci dei fondali così, da bersaglio divengono fonte di luce. Disegnano figure astratte costituite da stratificazioni di riflessi, proiettano sagome, mostrano intarsi di colori fluorescenti e ombre, quasi a voler imporre la propria presenza nello spazio, cessando di essere materia neutra grazie alla propria capacità “plastico-distorsiva”.
Ho immaginato di poter ottenere un risultato simile provando a condurre il materiale sonoro con cui ho maggiore confidenza in un percorso analogo, nel quale il suono prende il posto della luce mentre il vetro è sostituito dai filtri di segnale audio, principalmente delay, riverbero, pitch shifter, spectral Eqs e distorsioni digitali.
Per quanto riguarda i titoli posso dire che non sono mai casuali, li scelgo con molta attenzione. Dietro ogni titolo c’è sempre una storia o anche solo un’immagine o una sensazione che voglio associare alla musica o che esprimo attraverso il suono.
In alcuni casi i brani del disco si inseriscono sin dall’inizio nel discorso “concettuale” (“Sirens”, “Llyria”), in altri nascono da suggestioni non direttamente riconducibili ad esso (“Ex-butterfly”, “Her Red Shoes”, “Snapshot Of A Loss”).

Musica simile alla tua non è sempre facile da presentare nella dimensione live; come sono strutturate le tue performance dal vivo?
Ho sperimentato soluzioni diverse nei set che ho proposto finora, utilizzando in alcuni casi esclusivamente il laptop e in altri anche strumenti diversi.
Le cose cambiano a seconda del contesto e sopratutto della presenza di altre persone sulla scena. Quando mi presento insieme ad altri, la possibilità di interagire con le persone coinvolte può spingermi a sperimentare performance improvvisate e fuori controllo, come è successo nell’ultimo live fatto con Leastupperbound e gli Ahleuchatistas a Catanzaro per la winter session di “Diagonal Jazz”. In questa performance ho scelto di generare il suono da trattare elettronicamente percuotendo la mia chitarra con una bacchetta e utilizzando un e-bow per garantire sostegno al segnale audio; il coinvolgimento fisico è stato notevole e i danni riportati dalla mia chitarra, che peraltro ancora attendono di essere riparati, ne forniscono una testimonianza tangibile.
Quando mi esibisco da solo preferisco invece restare più vicino alla mia dimensione abituale,
basando le mie performance esclusivamente sulla gestione e sulla manipolazione live di samples.
Attualmente oltre al laptop e a un controller, utilizzo un sampler e una serie di effetti a pedale.
Questo approccio mi consente di gestire i suoni e combinarli come se avessi a che fare con una grossa tavolozza di colori. Mi sembra il modo migliore per presentare la mia musica. Non considero l’essere coreografico una priorità, l’importante è che dalle casse venga fuori un suono che mi rappresenta totalmente.

Cosa pensi dell’attuale modo di fruizione e diffusione della musica? E come ritieni che su di esso abbiano influito le possibilità offerte dalla Rete?
La rete mette a disposizione moltissima musica accessibile in qualunque momento e spesso offerta in modo del tutto gratuito.
Questo ha comportato a mio avviso una banalizzazione dell’atto dell’ascolto.
Spesso ci si limita ad ascoltare distrattamente quello che la rete offre ogni giorno saltando da un brano all’altro senza porre la dovuta attenzione su ciò che si sta ascoltando, dimenticando che
questo breve, distratto e rapido assaggio non ha nulla a che vedere con la riflessione, con l’ascolto reiterato e attento che merita un artista che si desidera capire a fondo.
La possibilità di scaricare la musica in formato digitale ha comportato una drastica riduzione della vendita di dischi e la contrazione di un mercato discografico già atrofico, con una conseguente riduzione degli investimenti fatti delle etichette.
A pagare il prezzo maggiore sono gli artisti esordienti o poco conosciuti, poiché sempre meno etichette sono disposte ad investire su chi, pur avendo uno spessore artistico che la label riconosce, non può vantare un sicuro seguito in termini di vendite e quindi un ritorno economico.
Molte label poi sono costrette a chiudere, dopo poco tempo dalla loro nascita pur veicolando ottima musica, perché non riescono neanche a coprire le spese sostenute con gli introiti derivanti dalla vendita dei dischi. Questo è molto triste.
Non ho nulla contro la distribuzione digitale a pagamento della musica e ne sono anche un fruitore, spero però che i cd e gli lp si continuino a stampare e a vendere ancora anche in futuro.
Il download illegale invece, pur essendo uno strumento con delle potenzialità non indifferenti anche da un punto di vista culturale, non può essere accettato completamente per la sua tremenda iniquità.
È infatti lesivo e potenzialmente letale tanto per le label che per gli artisti indipendenti. I sacrifici che si fanno per la stampa di un cd e l’investimento in termini di denaro, sforzi ed energie meritano indubbiamente la spesa di qualche euro che l’acquisto del disco richiede.

(questa intervista è frutto della sommatoria di parti di quelle realizzate in collaborazione con Mirco Salvadori e pubblicate nelle loro versioni integrali sul n. 381 di Rockerilla e sul sito ondarock.it nel mese di maggio 2012)

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