memories: IN RIBBONS

pale_saints_in_ribbonsPALE SAINTS – In Ribbons
(4AD, 1992)

Nell’incredibilmente vivace panorama britannico di inizio anni ’90, i Pale Saints non sono stati certo tra le band più celebrate e citate. È probabile che ciò non dispiaccia più di tanti al loro originario leader Ian Masters, schivo e introverso come pochi altri musicisti di quel periodo (e non solo), tanto da essere, di fatto, sparito dopo i primi due album realizzati con la band. Eppure, intorno alla sua personalità timida e per certi versi imperscrutabile ha ruotato un’esperienza artistica breve e preziosa, che nel secondo disco ha pennellato un toccante affresco di sonorità delicate e sognanti, permeate di un’aura costantemente adolescenziale, eppure pervase da una forza spirituale parimenti trascolorata attraverso chitarre e melodie evanescenti.

Non erano certo collocabili nella scia di My Bloody Valentine o Jesus & Mary Chain, i Pale Saints che, dopo il debutto “The Comforts Of Madness” (1990), si accingevano a “In Ribbons” avendo completato la ricerca di una seconda chitarra con l’inserimento in formazione di Meriel Barham, originaria cantante dei Lush, destinata da un lato a irrobustire le vibranti strutture dei brani di Masters, dall’altro ad alternarsi alla sua voce pacata e contemplativa, rendendo così ancora più eteree le sfumature wave di fine anni 80 di una scrittura melodica fragile e moderatamente umbratile.

Non vi sono infatti soltanto chitarre effettate nei dodici brani di “In Ribbons”, ma mille altre sfaccettature sonore, a partire dalle variazioni liquide e dalle continue onde emotive che aleggiano sulle melodie incantate del brano d’apertura (e successivo singolo di discreto successo) “Throwing Back The Apple”. Benché nei numerosi passaggi elettrici siano ancora molto presenti asciutte ritmiche di ascendenza wave, il loro impatto risulta quasi sempre attutito dalle ripetute aperture armoniche incrementali di brani come “Hunted” e “Ordeal”, anche se non mancano momenti dai ritmi serrati e dalla più pronunciata tensione chitarristica, quali “Babymaker” e “Liquid”, ove la presenza del cantato femminile evoca accostamenti a coeve indie-band al femminile come Breeders e ovviamente Lush.

“In Ribbons” presenta però anche un’altra faccia, che lo rende lavoro prezioso e unico nel contesto di quegli anni, allontanandolo anzi dagli schemi shoegaze. È una faccia oscura, ma al contempo serena, nella quale lo spirito ombroso di Masters si manifesta sviluppando da un lato gli accenni dream-pop già ravvisabili nell’album di debutto ed elaborando, dall’altro, un’intima e personalissima veste acustica nella quale concede più libero sfogo al suo sublime disincanto.

L’etereo dream-pop di Masters dipana lentamente la sua tensione emotiva, sfiorando astrattezze degne dei Cocteau Twins, soprattutto quando, come in “Thread Of Light”, è la voce femminile a ingentilire sferzate elettriche in dissolvenza, cantando versi di struggente romanticismo che nella “beauty hidden in the pain” inquadrano perfettamente l’essenza di una poetica timida e riservata, che trova in “Hairshoes” la sua versione maschile, con il cantato di Ian sospeso in una placida contemplazione di disarmante bellezza. La stessa che nel gioiello acustico “Shell”, incentrato soltanto su una chitarra e sugli arrangiamenti d’archi, svela un songwriting cristallino ove, spogliato dalle pur splendide componenti elettriche, emerge in tutta la sua cruda dolcezza lo spleen quasi anelato nell’invocazione finale “learn to cry, learn to fly”.

Sofferenza e bellezza, intenso coinvolgimento e placida contemplazione di stelle vagheggiate a occhi aperti definiscono in “In Ribbons” la cifra di un’opera non destinata alle stimmate del capolavoro – alle quali peraltro non aspiravano di certo i suoi artefici – nella percezione generale, ma a tale stregua interpretata da quanti ne sono stati toccati nel profondo dalla meravigliosa galleria di suoni ed emozioni generata dalla sensibilità acuta e particolarissima di Ian Masters.

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