MATT ELLIOTT – Failing Songs
(Ici D’ailleurs/Acuarela, 2006)

Quello di Matt Elliott è ormai senza dubbio un percorso artistico tra i più emblematici delle trasformazioni musicali avvenute a cavallo tra il secolo scorso e quello attuale: una parabola che dalle sperimentali destrutturazioni sonore di Third Eye Foundation lo ha condotto, attraverso un personalissimo e dolente approccio con l’elettronica, fino al folk corale e drammatico dell’ultimo, splendido “Drinking Songs“. Proprio dagli avvincenti connotati di quel lavoro, Elliott prende le mosse per proseguire nella sua opera di bilanciamento tra modernità e classicità, tra colta raffinatezza e tradizione popolare, tra forma canzone e sensibilità “post”. Il risultato di tante diverse suggestioni costituisce ancora l’adattissimo, oscuro fondale a quelle profonde e talvolta disperate considerazioni sulla fragilità e l’inevitabile fallacia umana, che lo caratterizzano come uno degli artisti attualmente più impegnati nella narrazione e nell’analisi problematica della contemporaneità.

In virtù di tali premesse, “Failing Songs” potrebbe sembrare non altro che il completamento naturale e persino scontato di “Drinking Songs”, come già farebbero presupporre il coro e le prime note di chitarra della spettrale ballata di disillusione umana e politica “Our Weight In Oil”, che riecheggiano quelle di pianoforte di “The Guilty Party”, formando un ideale trait d’union con le atmosfere e soprattutto il mood dell’album precedente. I circa cinquanta minuti di durata del lavoro rivelano tuttavia man mano la rinnovata espressione artistica del suo autore e la sua compiuta transizione verso un obliquo cantautorato folk dall’antico sapore mitteleuropeo, sapientemente temperato dalle componenti classiche e da una sempre elegante attitudine cinematografica. Ma v’è di più, perché questo lavoro sviluppa e conduce a equilibrato compimento quanto in “Drinking Songs” era sì piacevolmente spiazzante, ma appena accennato, oppure diluito in composizioni dilatate, che ancora risentivano di postumi elettronici e relativa incertezza estetica. “Failing Songs” sembra invece il frutto di una compatta matrice concettuale e stilistica, coerentemente espressa in dodici brani concisi, mai sovrabbondanti, che da un lato ripropongono la disincantata andatura ciondolante da “bateau ivre” dei cori (“Our Weight In Oil”) e dall’altro giocano ad alternare antinomie non solo musicali, riducendole a unità – come nel finale di “Chains” e nella sequenza veloce-lento delle due brevi “Good Pawn” e “Compassion Fatigue” – o arricchendole di una dimensione filmica che unisce classe francese, cultura continentale e accenti mediterranei (“The Seance”, “The Ghost Of Maria Callas”).

In composizioni compassate ma al tempo stesso febbrili e dai contorni sempre cangianti, nonostante il comune denominatore ad esse sotteso, Elliott accosta ambientazioni da colonna sonora alla Yann Tiersen a eleganti arabeschi pianistici, disegnati intorno alle scarne linee di basso di “The Seance” e addirittura al repentino impeto elettrico dell’impennata dai contorni post-rock che pure prelude al quieto finale acustico di “Desamparado”. Accanto a tali molteplici caratteri, un altro dei punti focali del lavoro va ravvisato nella moderna rielaborazione delle tradizioni popolari europee, le cui citazioni sembrano sempre il frutto di un consapevole approfondimento culturale che non di un’influenza acritica e in qualche misura “di maniera”. Così, anche la danza gitana di “The Failing Song” – la cui vivacità contrasta in maniera stridente con un testo che parla di “aspirations turned to ashes in our hands” – risulta privata di qualsiasi chiassoso orpello e permeata da una grazia decadente, che non svanisce nemmeno nel vorticoso finale, poi digradante con poche note di piano, mentre è una limpida chitarra latineggiante a incorniciare l’alternanza di ritmi e la perfetta integrazione armonica di “Broken Bones”, brano di soffusa e vibrante malinconia. Proprio qui, oltre che in “Good Pawn” e nelle uggiose atmosfere da “maudit” della sfumata “Lone Gunman Required”, Elliott mostra tutte le sue qualità di raffinato chansonnier che, unite all’intensità orchestrale delle composizioni, trovano uno dei pochi accostamenti possibili nell’intricato romanticismo dei primi Tindersticks.

E se la ricchezza di stili presenti in “Failing Songs” non sembrasse sufficiente, c’è da sottolineare ancora come Elliott rispolveri qui finanche la sua originaria matrice post-rock, percettibile in parte nella già citata “Desamparado” e ruvidamente espressa in “Chains”, ove la componente vocale da compunta diviene sgraziata, come negli sbilenchi cori di Silver Mt. Zion, descrivendo un fosco destino di inesorabile sopraffazione, mentre anche il contesto sonoro cresce in asprezza e dissonanza, avvolgendosi in un turbine bandistico funereo e distorto, nel quale si scontrano impetuosi spasmi elettrici, cupi fiati e violini stridenti.
Il filo conduttore di tutte le tracce resta infatti sempre il sottile tormento dell’autore, che pure si esprime secondo modalità di volta in volta diverse, ma tutte parimenti sofferte, anche quando, verso la fine dell’album sembra subentrare l’accettazione dell’ineluttabilità del destino, veicolata in “Gone”, ballata circolare e sorprendentemente limpida, dall’ipnotica iterazione “we will be gone”, e dall’ariosa, ritmica interazione tra coro, chitarra e violino del classicheggiante e sovversivo madrigale “Planting Seeds”, quasi una sorta di riepilogo in dissolvenza dell’essenza dell’intero lavoro, declinante in un ultimo minuto di solo piano, sul quale possono immaginarsi scorrere i titoli di coda della disperata comédie humaine illustrata in tutti i passaggi precedenti.

Gli elementi sin qui descritti e tante altre piccole preziosità comprese nelle sue tracce fanno di “Failing Songs” una splendida conferma della sopraffina sensibilità artistica di Matt Elliott; come tutte le conferme, manca in parte dell’immediatezza legata all’elemento sorpresa, eppure, basta esplorare con un minimo di attenzione le tante acute soluzioni sonore presenti all’interno dei suoi brani, per giungere alla conclusione che si tratta di un lavoro ancora più compiuto, curato e toccante del già ottimo “Drinking Songs”. Quello che ancora impressiona nella perenne evoluzione artistica di Matt Elliott, è la sua capacità di porsi continuamente in discussione come uomo e come artista, curando con precisione certosina ogni elemento, per dar luogo a un’opera schietta e quanto mai personale, la cui ragione di fondo risiede infine nella non comune energia interiore, a livello umano e intellettuale, che delinea la nitida fisionomia di un artista moderno, capace di esprimere secondo una notevole varietà formale l’angosciosa testimonianza del tempo presente, non solo dal punto di vista strettamente musicale.

(pubblicato su ondarock.it)

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