BARZIN – Notes To An Absent Lover
(Monotreme, 2009)

Non è semplicemente un album tra i tanti il terzo di Barzin Hosseini; è invece piuttosto un diario, lo spaccato di un momento di vita, di una transizione colta attraverso la sensibilità dell’artista canadese ed esplicitata secondo modalità per lui mai così compiute e dirette.
Tra contenuto narrativo e forma musicale, due aspetti salienti connotano “Notes To An Absent Lover”, seguito – al solito tutt’altro che frettoloso – del già splendido “My Life In Rooms”: da un lato i ricordi, correlati al senso di mancanza reso evidente fin dal titolo, dall’altro lo spostamento dell’attenzione dalla definizione di un suono ormai consolidato a quella di un profilo più schiettamente cantautorale, viatico decisivo per amplificare l’efficacia comunicativa di nove canzoni nelle quali cantato e melodie si fanno più decise, quasi a compensare la fragilità emotiva riscontrabile tra le intense righe dei testi.
Con spirito non dissimile da quello usualmente applicato da Roger Quigley, in “Notes To An Absent Lover” Barzin rivolge lo sguardo a un passato denso di sentimento, per dissezionare ricordi ed emozioni, senza remore di mettere a nudo una profonda incapacità di dimenticare e la sofferta consapevolezza di un’assenza legata a rapporti umani ormai esauriti.

Ogni canzone, ogni nota e parola rappresenta un luogo di questo viaggio dolorosamente dolce nell’assenza. Un percorso intrapreso nel tentativo di sciogliere la memoria in tanti rivoli di malinconia, attraverso i quali far scomparire il dolore, consentendogli di trasformarsi in altro. Barzin ci prende per mano accompagnandoci attraverso melodie ovattate e al tempo stesso decise, che completano le abituali cadenze rallentate con la romantica fluidità apportata dagli onnipresenti arrangiamenti d’archi, sciolti sulle note del pianoforte e della chitarra.
Se la complessiva maggiore sicurezza espressiva denota un’ulteriore maturazione nel songwriting, sorprende invece vederla sfociare nell’abbandono di modulazioni prossime allo slow-core in favore del solare andamento uptempo di “Look Was Love Has Turned Us Into”, brano tanto immediato e “radiofonico” da distaccarsi nettamente dalle atmosfere del resto del lavoro. Eppure, proprio qui ancora più che in altri casi, diviene stridente il contrasto tra l’apparente imperturbabilità delle canzoni e l’alienazione derivante dalla sconfitta nella partita dell’amore e dalla perdita di quella bellezza che permette di riscoprire l’innocenza del mondo.

C’è dunque tutto un mondo lungo “Notes To An Absent Lover”, avvinto nei solchi di brani a tratti ancora percorsi da sinuosi sentori Mazzy Star. Un mondo in bilico tra un nuovo inizio che stenta a realizzarsi (“Stayed Too Long In This Place”) e lo smarrimento di luoghi, oggetti e sentimenti non più vivi e presenti (“Soft Summer Girls”). Barzin ci fa percepire la vertigine, tanto pervasiva da inaridire persino la musa dell’artista, creatura onirica che nella memoria si confonde con l’immagine dell’amata lontana: “Queen Jane”. Ultima tra le figure femminili da lui descritte con immenso garbo: sensuali, profonde e capaci di far risuonare della loro presenza stanze deserte o di portar via con sé ogni scintilla di sole (“Inside a house/ with a broken guitar/ I waited for a song/ but nothing would come/ won’t you come, my Queen Jane/ and bring me a song'”).
Al progressivo ripiegamento dell’artista canadese nelle stanze della memoria corrisponde l’esigenza di una forma espressiva intima e ariosa, che però non sacrifica affatto la cura per ambientazioni sonore avvolgenti. Lo sforzo comunicativo va, infatti, di pari passo con melodie e arrangiamenti morbidi e diretti, ancorché più convenzionali rispetto a “My Life In Rooms”. L’album riesce quindi ugualmente alla perfezione nella sua progressione emotiva, che dalla chiarezza stordente di un’impietosa dissezione del vissuto culmina nel languido abbandono al sogno dello shakespeariano (“Morire… dormire… forse sognare”) finale “The Dream Song”. Il brano, già edito nel 2004 nel mini “Songs For Hinah” – piccolo scrigno dal quale Barzin continua ad attingere per rielaborare simbolicamente il passato alla luce del presente – risulta qui decisamente più rifinito e romantico rispetto all’originale, del quale conserva sempre intatto il senso di umana fragilità (“so I became the king of all things weak”) e la riflessione sulla capacità della mente di creare e abbattere i propri demoni.

Sfogliata l’ultima pagina del diario, spentasi nell’aria l’ultima nota dell’album, restano sensazioni che si rivelano piano, ascolto dopo ascolto, per depositarsi nel profondo, nella memoria emotiva di quanti saranno in grado di apprezzare con pazienza e sensibilità la malinconia di questo viaggio attraverso gli appunti amorosi di Barzin, che dischiudono il suo mondo interiore con uno stile cantautorale denso e personalissimo.

(in collaborazione con Giusi Perendellini, pubblicato su ondarock.it)

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