intervista: BARZIN

In occasione dell’uscita del suo terzo album, “Notes To An Absent Lover”, Barzin lascia da parte l’introversione abituale della sua musica, per raccontarsi come uomo e come musicista. Dai timidi inizi con la chitarra alle cadenze rallentate dei suoi dischi, le sue esperienze personali corrono in parallelo con la maturazione di un percorso artistico che lo ha condotto alla definizione di uno stile ben preciso e sempre inteso alla narrazione di storie, sensazioni, ricordi.

Come ha avuto origine la tua passione per la scrittura musicale? Ho letto che hai iniziato suonando la batteria in una band liceale e che solo dopo sei passato alla chitarra: com’è stata la “scoperta” di questo strumento? Cosa sentivi che ti avrebbe potuto dare?
Il primo strumento che ho posseduto è stata un’armonica; era tanto tempo fa, e tutto quel che ricordo oggi era che stavo seduto sui sedili posteriori della macchina dei miei genitori cercando di comprendere ed imitare la melodia di “Love Me Do” dei Beatles. Dopo di che, il primo strumento che ho iniziato a suonare è stata la batteria. Ma non ero animato da una particolare passione per lo strumento; iniziai a suonarlo solo perché tutti i miei amici avevano iniziato a suonare la chitarra e volevamo formare insieme una band e io mi offrii per la batteria, visto che nessuno voleva suonarla.
Ripensando a tutti gli strumenti che ho suonato, non potrei dire che nessuno di essi mi definisca in maniera esclusiva. Non mi considero assolutamente un chitarrista, né un batterista o un pianista. Ho sempre considerato gli strumenti come mezzo per un fine, perché me ne servo per scrivere le canzoni. Sono affezionato a tutti gli strumenti che suono, ma l’attaccamento che ho nei loro confronti non è paragonabile al mio amore per la scrittura delle canzoni. È quella la mia passione più autentica.

Dalla genesi della tua idea di fare musica, nel 1995, al primo album ufficiale sono passati alcuni anni, e anche in seguito le tue produzioni non sono mai state molto frequenti. Si tratta di una scelta o dipende dalla necessità di sedimentare testi e composizioni?
Ci sono artisti e musicisti che hanno fin da subito un’idea molto chiara di quello che vogliono realizzare, tanto che possono sedersi a tavolino e scrivere una canzone, un poema o un racconto nel giro di una settimana. Per me invece il processo creativo è molto laborioso e richiede un ampio periodo di tempo. Mi paragonerei a quei pittori che dipingono tante volte lo stesso quadro, ma ogni volta in maniera leggermente differente, fino a quanto non abbiano raggiunto un risultato che li soddisfi, e ciò può avvenire magari al trentesimo o al quarantesimo tentativo.
Quando comincio a scrivere una canzone, davvero non ho idea di quel che sto per dire o di che tipo di melodia posso realizzare. Cerco soltanto di essere paziente e lasciare che le mie idee fluiscano lentamente nella scrittura; scrivo in continuazione, tanto che mi capita abitualmente di scartare tante idee fino a quando non affiorano in superficie i testi e la melodia.

Qual è la tua situazione ideale per comporre? Ti lasci guidare dalle emozioni di un momento, oppure le tue canzoni nascono in maniera più studiata e tecnica?
Credo che le canzoni alle quali mi sento più legato e che mi piacciono di più siano state suscitate da una specifica componente emozionale, piuttosto che da un’idea o un approccio tecnico.
È importante capire in teoria cosa possa rendere una buona canzone. Una tale conoscenza è essenziale per realizzare un buon lavoro, ma è altrettanto importante ricordare che nel momento della creazione artistica bisogna permettere alle emozioni e al subconscio di essere presenti, in modo da entrare a far parte dell’opera. Ci sono stati momenti in cui mi sono seduto a tavolino per realizzare qualcosa incentrato su un tema o su un esercizio musicale, ma non ho mai ritenuto valido quel che ne veniva fuori, mentre credo di essere riuscito a dare il meglio nei casi in cui mi sono lasciato andare, permettendo ai misteri del processo creativo di realizzare la sua meraviglia.

Al di là della tua esperienza come batterista, qual è la tua formazione musicale, in termini di ascolto e ispirazione? Ritieni abbia influito sulla musica che in seguito hai prodotto?
Ho studiato il pianoforte e la batteria, ma per un periodo non così lungo come ho fatto con la chitarra e trovo che la conoscenza acquisita circa questi strumenti mi sia stata molto utile per la scrittura. Scrivere una canzone al pianoforte è molto diverso rispetto a scriverla sulla chitarra, quasi come se ogni strumento toccasse e catturasse parti diverse della mia creatività. Da qualche tempo ho iniziato a scrivere canzoni sul banjo; mi sta piacendo davvero molto, perché ho scoperto che mi permette di scrivere in una maniera ulteriormente diversa rispetto a pianoforte e chitarra.

I tuoi primi album erano caratterizzati da una notevole ricerca di sonorità lente e ovattate, tanto che in alcuni casi la tua musica è stata accostata alle definizioni di slow-core o addirittura post-rock (per quel che possano significare…), mentre poi, in particolare in “Notes To An Absent Lover”, i suoni si sono fatti più solari e maggiore è la propensione ad arrangiamenti orchestrali. È un’evoluzione da te voluta? E qual è per te la differenza tra il primo album, quando facevi quasi tutto da solo, e adesso che puoi contare su un vero e proprio gruppo di musicisti?
Entrare in studio è per me un’esperienza intrigante, perché quando registri un brano tutto può risultare diverso da come lo avevi immaginato. Può capitare di entrare in studio con tante idee per una canzone, e di rendersi conto solo in sede di registrazione che gli arrangiamenti non funzionano a dovere.
Allora, all’inizio delle registrazioni di “Notes To An Absent Lover” ho ritenuto opportuno registrare per ogni canzone quanti più strumenti possibile, senza limitarmi a un novero circoscritto di strumenti. Così facendo, sono stato in grado di vedere come ogni canzone potesse suonare con un diverso impianto strumentale, per cui ho finito di decidere la maggior parte degli arrangiamenti in studio, anziché predeterminarli.
Inoltre, questa volta ho anche lavorato con un gruppo di musicisti con i quali sono stato in tour e che conoscevano molto bene la mia musica, ed essendo tutti musicisti molto esperti mi hanno reso le cose molto facili, perché, per esempio, ogni volta che mi veniva un’idea o volevo provare a suonare un brano in un modo particolare erano in grado di metterlo in pratica. È stato un modo di lavorare perfetto per me, visto che mi piace provare ad applicare approcci sempre nuovi alle mie canzoni.

Analogamente, sembra che col tempo ti sia concentrato sempre più sulla cura degli aspetti di scrittura delle canzoni. Sei d’accordo? Ti definiresti un songwriter, nell’accezione classica del termine?
Sì, mi considero senz’altro un songwriter. Amo l’arte di scrivere canzoni, ne sono affascinato e continuo a entusiasmarmi quando penso a tutte le cose che potrei imparare a riguardo. E anche la musica che ascolto con maggior frequenza è opera di cantautori considerati artigiani della canzone.

Hai origini iraniane e hai vissuto in Iran per molti anni: è evidente che dalla tua musica non si percepisce questa parte della tua biografia, ma pensi che questo elemento abbia influito su di te come persona, sia dal punto di vista culturale che umano-spirituale?
L’autentica musica tradizionale iraniana è intrisa di un tono decisamente tragico e malinconico, che sento fortemente presente nella mia musica. Inoltre, amo profondamente la poesia, che fa parte della cultura persiana fin dalle sue origini, quindi ritengo si tratti di due elementi importanti che ho ereditato dalla cultura iraniana.

Nell’ultimo decennio il Canada ha regalato tantissima musica di qualità e si è segnalato per la creazione di alcune vere e proprie “scene” musicali, gravitanti intorno a collettivi come quelli di Montreal o etichette come Constellation, Arts&Crafts, Weewerk, etc. Cosa pensi della musica canadese attuale? Ci segnaleresti qualche nome da tenere d’occhio?
Attualmente il panorama musicale canadese è molto ricco. C’è così tanta buona musica da andare ben al di là dei soli nomi che riescono ad emergere.
Personalmente, sono sempre stato un estimatore di Michelle Mcadory, che finora ha realizzato un solo album, ma bellissimo. Apprezzo molto anche un artista che va sotto il nome di Bd Harrington: è una delle persone di maggior talento che io conosca ed ha appena finito di girare un video per me. Sta lavorando sul suo album di debutto da due anni e penso che la sua uscita sia ormai prossima.

Sempre restando in Canada, fin dal primo album sei stato affiancato da Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, mentre poi hai collaborato anche con Sandro Perri, due artisti dallo stile e dal percorso musicale diverso dal tuo. Cosa hai potuto trarre da queste collaborazioni? Ci sono altri artisti con i quali ti piacerebbe collaborare?
Sia Tony che Sandro sono artisti di grande talento, e ognuno di loro ha qualità differenti. A Sandro ho sempre pensato come produttore, perché è davvero pieno di idee sull’arrangiamento dei brani e sulla scelta degli strumenti giusti per le singole parti di ogni canzone; e poi è dotato di una sensibilità sperimentale che permette alle sue idee di esplicarsi in maniera imprevedibile.
Tony invece è una specie di artigiano, un vero e proprio cantautore impegnato nel cercare di scrivere e dire qualcosa di conciso, semplice e memorabile in un pezzo di tre minuti e mezzo; infatti ha scritto molte canzoni bellissime. Da lui riesco a trarre spunti per mantenere la mia musica semplice e per continuare ancora di più nell’ispirazione del mio mondo interiore.
Un artista con il quale spero di avere la possibilità di lavorare in futuro è Eric Chenaux, chitarrista e songwriter che ha pubblicato i suoi lavori per Constellation. Mi interessa molto il suo modo di suonare la chitarra, perché trovo che il suo approccio allo strumento sia alquanto inusuale. Un giorno o l’altro spero di poter fare un album sperimentale e sarei molto contento se Eric potesse collaborarvi.

Venendo all’Europa, sembra che uno dei primi Paesi europei in cui la tua musica è stata apprezzata sia stata la Francia, tanto che dopo il primo album hai pubblicato una raccolta di canzoni sulla micro-label Hinah. È sembrata una scelta molto particolare, soprattutto in termini di diffusione di quell’edizione limitata: come sei entrato in contatto con l’etichetta? Che tipo di esperienza è stata?
Sono entrato in contatto con Hinah grazie a Liz Hysen dei Picastro. Mi è sembrata da subito un’etichetta interessante per il fatto che avesse deciso di realizzare piccole edizioni limitate di band ed artisti molto interessanti.
Mentre lavoravo a “My Life In Rooms”, avevo alcune canzoni che non intendevo comprendere nell’album, ma erano sufficienti per farne un Ep, e siccome mi sembrava che si adattassero a sufficienza allo stile delle produzioni Hinah, mi sono messo in contatto con l’etichetta e loro sono stati così gentili da far uscire l’Ep.

Si direbbe che le poche copie di quel mini album siano state per te un incentivo per tornare su alcune di quelle canzoni e riproporle rielaborate nei dischi successivi. Ti piace tornare su tuoi brani già editi? Che sensazioni provi a rimaneggiare qualcosa di già fatto e definito?
Sono abituato a tornare sulle mie canzoni nel caso in cui non sia soddisfatto del modo in cui sono state registrate o arrangiate. È questo il motivo per cui nel nuovo album ho ri-registrato “The Dream Song”. Cerco di fare in modo che non diventi un’abitudine, ma nel caso di “The Dream Song” non solo avvertivo forte il desiderio di registrare il brano in modo differente, ma anche la sentivo particolarmente adatta al tema dell’album.

La prima delle canzoni di “Songs For Hinah” che hai riproposto in seguito (in “My Life In Rooms” n.d.r.), è “Just More Drugs” brano che, per il testo e per la sua veste più elettronica, sembra differire dalla tua solita impronta musicale. Qual è il suo significato? In generale, com’è il tuo rapporto con l’elettronica nella creazione della tua musica?
Durante la realizzazione di “My Life In Rooms” stavo attraversando una fase in cui mi ero interessato all’elettronica, nel tentativo di definire uno mio stile “unico”, che pensavo di poter raggiungere includendo l’elettronica nella mia musica.
Ritengo che quando l’elettronica viene usata in maniera efficace possa portare a ottimi risultati, come hanno dimostrato band quali Portishead e Radiohead, che hanno avuto grande gusto nel modo in cui l’hanno accostata alla loro musica. Però bisogna andarci cauti, perché c’è sempre il rischio di rovinare una canzone.
Adesso penso che quella fase della mia evoluzione musicale sia terminata, per cui sto via via abbandonando l’utilizzo dell’elettronica.

In “Notes To An Absent Lover” invece riprendi un altro brano di “Songs For Hinah”, “The Dream Song”, che contiene la definizione “king of all things weak”, che personalmente non posso immaginare scissa dalla tua musica e dal senso di intima fragilità che da essa promana. È una definizione in qualche modo autobiografica? Ti va di spiegarne il significato?
All’epoca in cui ho scritto quel brano vivevo negli Stati Uniti, in una vecchia casa affittata insieme alla mia compagna. Un pomeriggio che ero solo in casa, mi sono addormentato e quando mi sono svegliato il cielo era diventato di quel colore strano e quasi ultraterreno che assume poco prima del calar della notte. In quel momento, la combinazione tra il silenzio della casa e il sogno da cui mi ero appena svegliato aveva instillato in me un senso di paura. Non sono sicuro di cosa si trattasse, ma mi sentivo come se tutti i pensieri che avevo rimosso dalla mia mente fossero riaffiorati in superficie. Così mi sono messo a scrivere di quei momenti e di tutte le sensazioni che stavo provando. Penso che in quel modo stessi cercando di tenere la situazione sotto controllo scrivendone: è una cosa che a volte mi capita di fare. Sono convinto che scrivere delle cose che ci angustiano possa essere un modo efficace di affrontarle.

A proposito dell’intimismo della tua musica, “My Life In Rooms” sembra molto vicino a un vero e proprio manifesto della tua sensibilità artistica e lascia intendere quasi una necessità di isolamento, un ripiegamento nel privato per ritrovare se stessi. È così? Qual è per te il significato di una “life in rooms”?
Sì, credo che l’isolamento e la solitudine siano necessari, non solo per la creatività degli artisti, ma per chiunque sia interessato a investigare il proprio mondo interiore in un processo di conoscenza di se stesso o di crescita personale. Ma penso anche – ed è qualcosa di cui ho cercato di parlare nell’album – che un eccesso di isolamento e ricerca in se stessi senza una guida adeguata possa risultare logorante, da un punto di vista sia spirituale che emozionale.
La solitudine è necessaria per la creazione artistica, ma può anche tagliarti fuori dalla vita e farti dimenticare come vivere. Penso che gli artisti cerchino sempre di comprendere come riuscire a vivere contemporaneamente nel mondo e nella loro arte.

In molte delle tue canzoni si riscontra un senso di mancanza, di assenza, che hai riassunto in maniera eccelsa nell’espressione “in love with everything that is lost”: si tratta di un’assenza tangibile, reale, oppure è qualcosa di strettamente spirituale?
In termini generali, penso che ci si rivolge alla spiritualità, alle arti, alla droga, etc. perché nelle nostre vite c’è una mancanza, un senso di vuoto che speriamo di riempire attraverso qualcosa di esterno a noi stessi. Il percorso che ho seguito per rifuggire da questo vuoto è costituito dall’arte, ma ho imparato che l’arte da sola non è in grado di rimuovere completamente il senso di assenza che sentivo nella mia vita.
Non sono sicuro di essere nel giusto, ma sono convinto che per tutto il corso della nostra esistenza non ci si possa liberare da questo senso di incompletezza. Si può trovare l’amore, trasformare l’arte in un ottimo lavoro, o fare un sacco di soldi, ma per quanto perfetta sia la condizione in cui ci si trovi, non potrà compensare tutto il senso di incompletezza.

Nella tua musica la sofferenza per queste mancanze sembra placata sotto una superficie molto morbida e controllata; è un’attitudine del tuo animo o dipende solo dal tuo rapporto con la scrittura?
Se può riscontrarsi un nesso tra queste mancanze e il modo in cui scrivo musica, si tratta di qualcosa di inconscio. Non se sono consapevole.

Molte canzoni si ricollegano a temi sentimentali e presentano testi molto intensi, soprattutto nell’ultimo album (“Past All Concerns”, “Won’t You Come”, “Stayed Too Long In This Place”, solo per citarne alcune), ma non si tratta mai di brani edulcorati: c’è un legame tra i sentimenti e la tua musica? Che tipo di emozioni ricevi dagli uni e dall’altra?
Scrivere una canzone d’amore è una cosa veramente difficile, perché si tratta dell’argomento del quale è stato già scritto all’infinito, per cui è difficile riuscire a dire qualcosa che non sia stato detto in precedenza mentre è facile che la parole utilizzate per parlarne abbiano poco senso. L’unico modo in cui mi sono sentito in grado di parlare della mia esperienza dell’amore dandole un significato è stato quello di renderla quanto più personale possibile. Non credo che mi sarei sentito coerente con le mie esperienze se avessi inteso far sembrare le mie canzoni d’amore universali.
E quando si tratta di cantare, mi sembra di gravitare sempre dalle parti di uno stile non particolarmente espressivo di emozioni. Mi piace molto il modo di cantare stoico di autori quali Leonard Cohen e Bob Dylan, mentre non apprezzo particolarmente quello stile canoro che esprime troppa emozione.

In “Notes To An Absent Lover”, oltre al tema dell’assenza – esplicitato già nel titolo – ricorre spesso quello della memoria, del desiderio di dimenticare e lasciarsi alle spalle un vissuto personale. In particolare, l’assenza della persona amata è raccontata attraverso la luce del ricordo. Tutto è soffuso da una dolce malinconia, come se il passato per te fosse un fiume cui abbandonarsi, e da cui lasciarsi riempire per colmare ogni vuoto. Mi hai fatto pensare a questa poesia di Emily Dickinson: “Looking back, is best that is left/ Or if it be – before -/ Retrospection is Prospect’s half,/ Sometimes, almost more”.
Al di là di queste impressioni personali, quanto spazio occupano realmente dentro di te i ricordi? E quanto davvero riesci a trasformare il dolore della separazione in dolce melanconia?
Onestamente, non saprei. So solo qualcosa di semplice e non molto profondo: nella mia vita ho subito una grave perdita, dalla quale ho cercato di allontanarmi nella speranza di lasciarmela alle spalle. Però quella perdita ha continuato a inseguirmi e allora ho tentato di confrontarmici scrivendo questo disco, dando retta a tutti quelli che sostengono che le paure si superano affrontandole. Così ho pensato di poter esorcizzare quel ricordo scrivendone; non penso però che abbia funzionato.
Ho fatto diversi tentativi di distaccarmi da quella perdita: ho provato semplicemente a dimenticarla, ho provato a scriverne, a viaggiare e in altri modi ancora, ma nessuno ha funzionato. Quindi la ragione principale per cui ho scritto quest’album è derivata dal pensiero che mi avrebbe potuto aiutare ad allontanarmi da quel ricordo e a chiudere quel capitolo della mia vita.
Ma sto lentamente imparando che ci sono cose del passato che rimangono dentro di noi per un tempo lunghissimo, per quanto forte si la volontà di rimuoverle.

Un tema particolare che ricorre nei tuoi brani è quello della guida automobilistica, che è presente nei brani d’apertura sia di “My Life In Rooms” che di “Notes To An Absent Lover”. C’è dietro un significato simbolico? Che musica ti piace ascoltare mentre sei alla guida?
Mi piace moltissimo guidare, soprattutto di notte. E mi piace ascoltare musica mentre guido. Sono un paio d’anni che vivo fuori città, perciò quando ci vado mi capita di guidare a lungo; per questo motivo la guida è diventata una parte importante della mia routine quotidiana.
Quello che più mi piace della guida è l’illusione di libertà che ti dà: è come se stessi lasciando qualcosa dietro di te e ti dirigessi verso qualcosa di meglio. Quando si sta dentro casa per lungo tempo, può montare un senso di stanchezza per lo stesso ambiente e quasi di claustrofobia, ma salendo in macchina, all’improvviso il movimento e il cambiamento di paesaggio suscitano nuove sensazioni.
Quelche ascolto mentre guido varia a seconda del momento della giornata: di mattina ascolto solitamente i notiziari, mentre di notte mi piace ascoltare musica dai testi riflessivi.

Il tuo prossimo tour europeo toccherà anche l’Italia: sarà la tua prima volta qui? Hai delle aspettative a riguardo?
No, sarà la mia terza volta in Italia. La prima volta ho suonato solo a Milano, mentre la successiva ho fatto circa quattro date in diverse città. In entrambe le occasioni è stato fantastico, quindi non vedo l’ora di ritornare!

(pubblicato su ondarock.it)

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