WHITETREE – Cloudland
(Ponderosa, 2009)

Non rappresenta certo una novità lo spirito collaborativo di Ludovico Einaudi, che lo ha condotto a confrontare le sue composizioni per pianoforte con artisti provenienti da universi musicali molto diversi. Questa volontà di trasfondere la sua formazione classica in contesti ad essa estranei, finora manifestatasi in prevalenza in esibizioni live, trova adesso espressione in un disco in studio e in un vero e proprio progetto artistico a nome Whitetree, che lo vede affiancato ai fratelli Robert e Ronald Lippok dei To Rococo Rot, già suoi compagni in alcuni concerti italiani di qualche anno fa.

Come agevolmente intuibile dai profili degli artisti coinvolti, “Cloudland” costituisce l’ennesimo saggio di quel matrimonio tra retaggi classici e sfumature dell’elettronica, di recente così diffuso soprattutto in ambito ambientale e a livello di sperimentazioni minimali. Non desta dunque sorpresa constatare come tutto il lavoro sia improntato alla ricerca di un equilibrio tra le lievi note di pianoforte del compositore torinese e le miniature elettroniche dei due artisti berlinesi.
Benché concettualmente ispirato alla relazione dell’uomo con le asperità della natura che lo circonda (il riferimento esplicito è a un racconto dell’autore nigeriano Amos Tutuola, intitolato ”The Palm-Wine Drinkard“), l’album non rifiuta ovviamente le interrelazioni tecnologiche, anzi fin dall’inizio si dimostra inteso a tradurre in una veste più ricca le soavi melodie pianistiche di Einaudi. Non sembra un caso che proprio il titolo del brano d’apertura (“Slow Ocean”) e le sue note lentamente stillate rimandino a “Le Onde” e alle altre opere attraverso le quali Einaudi si è fatto conoscere ben al di là dei confini della classica contemporanea; rispetto ad esse le composizioni qui raccolte risultano però volutamente disorganiche e frammentate, in modo da mantenere costanti connotati notturni e adeguarsi alle dense pulsazioni apportate dai fratelli Lippok.

Benché “Cloudland” denoti un’evidente impostazione da colonna sonora riflessiva e dai ritmi compassati, solo in pochi brani (“Kyril”, “Koepenik”) i suoi scarni elementi si coniugano in maniera compiuta, mentre in generale il lavoro sembra viaggiare su due binari paralleli che alternamente prevalgono l’uno sull’altro. Così, se le parti elettroniche restano quasi sempre sullo sfondo, affiorando soltanto a tratti, è il pianoforte a conformare le cadenze al rallentatore di “Other Nature” o l’aura solenne di “Mercury Sands”. Tuttavia, è proprio la centralità delle raffinate trame di Einaudi a non cogliere completamente nel segno, poiché le note stillate dal suo strumento restano per lo più sparse e incapaci di conseguire melodie delineate e tali da costituire adeguato coronamento al contesto nel quale sono inserite, altrettanto pregevole ma altrettanto incapace di superare la sensazione complessiva di un esercizio stilistico formalmente ben riuscito ma in fondo un po’ fine a se stesso.

Date le potenzialità degli artisti impegnati, sarebbe stato legittimo attendersi qualcosa di più da “Cloudland”, che in definitiva riesce abbastanza bene nel suo intento di delineare tre quarti d’ora di musica che scorre via placida e senza sussulti, ma scarsamente incisiva dal punto di vista di una fruizione, destinata piuttosto a essere relegata a sottofondo.

(pubblicato su ondarock.it)

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