THE AMERICAN DOLLAR – Atlas
(Yesh, 2010)

Dieci e più anni nel corso dei quali l’etichetta di “post-rock” è stata applicata negli ambiti e a proposito degli artisti più disparati hanno avuto il duplice effetto di inflazionare la definizione e inaridire la spinta propulsiva che aveva contrassegnato le espressioni che al nucleo centrale (ancorché non originario) di quell’ambito facevano riferimento.

Non è più un mistero che di pallidi epigoni di emozionali crescendo chitarristici della “solita” triade Mogwai-Godspeed You Black Emperor!-Explosions In The Sky sia pieno l’universo: il punto dolente di quasi tutte le operazioni di questo tipo è però sempre stato quello in virtù del quale la forma può anche replicarsi, ma senza slancio e sostanza si riduce soltanto a un calligrafico esercizio di stile.

Cosa fare dunque per evitare di incorrere in un risultato così banale, eludendo nel contempo le troppo facili diffidenze che spesso accompagnano la semplice lettura di quella definizione? Semplice a dirsi, meno a farsi: cambiare! Non stravolgere per altrettanto sterile coazione all’innovazione, ma evolvere in maniera coerente, espandendo il proprio spettro espressivo a modalità limitrofe a quelle d’origine, aggiungendo tessere a un puzzle musicale come sempre variegato e irriducibile a rigidità sistematiche.

È quello che provano a fare, già da qualche tempo a questa parte, John Emanuele e Rich Cupolo, due musicisti newyorkesi adesso giunti al loro quinto lavoro sulla lunga distanza a nome The American Dollar.

Senza lanciarsi in sconvolgimenti della formula sulla quale agisce, con alterne fortune, il duo ha depotenziato la prevedibile retorica dei crescendo e delle esplosioni chitarristiche, filtrando nel contempo le proprie composizioni attraverso l’elettronica, non più componente marginale di una musica costruita su ben altri pilastri, ma protagonista tanto in funzione di dilatazione ambientale quanto di variazione ritmica e veicolo di una più complessiva trasformazione del suono.

Così, anche in “Atlas” gli American Dollar traducono la base organica della loro strumentazione attraverso samples e digitalizzazioni, che coinvolgono finanche pianoforte e tastiere, fino a ottenere un articolato prisma sonoro, costituito da riverberi cangianti, tensioni elettriche sfumate e febbrile susseguirsi di arrangiamenti e ambientazioni. Non più impennate, dunque (giusto un paio di crescendo in “Fade In Out” e “Flood”), tutt’al più residui assolo chitarristici di inedita classicità a far da contrappunto a sequenze cinematiche in continuo divenire, come fossero i paesaggi osservati nel corso di un lungo viaggio.

È proprio questa l’idea che emerge da “Atlas”, album che allo stesso modo, senza alcuna brusca cesura, avvicenda senza sosta musica e sensazioni, alternando anche all’interno di un medesimo brano ariose aperture armoniche, luminosi filamenti ambientali e increspature elettroniche che talvolta prendono decisamente il sopravvento (“Red Letter”).

L’attitudine “post” permane inalterata sullo sfondo, in qualità di cornice entro la quale John e Rich collocano le loro concise colonne sonore emozionali, tanto meglio riuscite quanto più riescono a distaccarsi dal loro impianto di base, scolorando nell’ambient, sfiorando saturazioni chitarristiche dense di distanti echi shoegaze o ancora offrendo equilibrati connubi con un pianoforte filtrato elettronicamente (“Age Of Wonder”, “Shadows”) e oniriche melodie digitali a mo’ di The Album Leaf.

Non l’opera migliore della band americana (“The Tehnicolour Sleep” del 2007 resta a tutt’oggi il loro lavoro più compiuto), ma senz’altro una buona occasione per scoprirla trascorrendo gli oltre cinquanta minuti di durata del disco a contemplare i tanti fotogrammi immaginari riversati lungo i solchi delle sue tredici tracce.

(pubblicato su ondarock.it)

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