storie d’artista: THE ALBUM LEAF

Un tuffo nel blu

Jimmy LaValle è un outsider. Quando comincia a pubblicare dischi a fine anni 90 nell’afosa San Diego sono in pochi ad accorgersene. I primi timidi riscontri di critica e pubblico li riceve solo qualche anno più tardi quando si trasferisce in Islanda, per registrare il suo terzo album negli studi dei Sigur Rós.

Nel 1997 Jimmy LaValle fa parte di un oscuro gruppo post-rock di San Diego, i Tristeza. Insieme a Jimmy ci sono Christopher Sprague, Luis Hermosillo e James Lehner. Il gruppo però gli va stretto e, a meno di dodici mesi di distanza, decide di crearsi un alterego a nome The Album Leaf per pubblicare una musica più romantica e melanconica. L’album d’esordio, “An Orchestrated Rise To Fall” (1999), esce lo stesso anno del debutto dei Tristeza, “Spine and Sensory”. Le carriere dei due gruppi per un po’ corrono su binari paralleli, prima che Jimmy decida di dedicarsi a tempo pieno a The Album Leaf.

Già dalla meravigliosa copertina di A”n Orchestrated Rise To Fall” si è catapultati in un mondo fatto di sogni e sensazioni dilatate. La musica della prima traccia conferma questa sensazione: “Wander” è un capolavoro allucinante, un’improvvisazione costruita su sequenze di rhodes e sintetizzatori. Se solo il brano fosse uscito da uno studio di Berlino o di Colonia, invece che da uno sperduto studio di San Diego, si sarebbe urlato al miracolo, chiamando in causa numi tutelari quali Cluster e Neu!. La malinconia imprigiona gli arpeggi della chitarra acustica di Jimmy LaValle, unico responsabile di quest’arte, nata probabilmente dalle ceneri del post-rock ma cresciuta con mille riferimenti diversi tra loro. La qualità delle registrazioni non impedisce a The Album Leaf di costruire uno dei veri best kept secrets degli anni 90, che ha il suo apogeo nella lunghissima (ancor più lunga nella versione in vinile) “A Short Story”, una commovente cavalcata di venti minuti capace di trovare punti di contatto con i momenti più belli di tutto l’indie-rock, passato e futuro (all’epoca i Sigur Rós erano ancora un fenomeno tutto islandese). Non sono le canzoni che interessano Jimmy LaValle, almeno fino ad ora. Quello che il giovane compositore californiano cerca di comunicare attraverso la sua arte è un’atmosfera magica in cui immergere l’ascoltatore. I quattro brani che compongono “In An Off White Room E.P.” (2001) sono una continua ricerca di un connubio tra bellezza e realtà.

Il secondo album ufficiale di The Album Leaf ha sulla confezione uno sticker che ricorda l’altra band di Jimmy LaValle, i Tristeza. “One Day I’ll Be On Time” (2001) in parte abbandona lo sperimentalismo delle uscite precedenti, e si avvicina ad una forma di canzone liquida e sognante che ha il suo punto di forza nella bellezza della melodia, di qui in avanti sempre al centro delle composizioni di LaValle. Chitarra e pianoforte si alternano nel disegnare queste melodie capaci di suggerire atmosfere serene ed oniriche.

La meravigliosa “Another Day” impreziosisce “A Lifetime Or More” (split album con On!Air!Library!), doppio Ep di sei brani, di cui i primi tre sono a firma The Album Leaf. Jimmy ha registrato le sue tracce durante l’autunno del 2002 improvvisando come sempre al piano, al fender rhodes e ai sintetizzatori: “Essex” conferma la statura di LaValle nel ricercare ammalianti atmosfere lunari; “Lamplight” rallenta forse troppo e l’effetto non è lo stesso delle prime due composizioni. I restanti tre brani di On!Air!Library! non sono all’altezza della prima metà dell’album.

Pubblicato nel 2003 per la serie di Ep dell’etichetta spagnola Acuarela, “Seal Beach E.P.” contiene cinque brani registrati nel giugno del 2003. Il graduale avvicinamento di LaValle alle atmosfere hopelandic dei Sigur Rós è evidente fin dalla prima traccia di questo Ep, “Malmo”. La melodia della successiva “Brennevin” è arricchita dal violino di Matt Resovich, mentre il rhodes è avvolto in un’elettronica che sembra uscire dai solchi dell’esordio dei Telefon Tel Aviv, “Fahrenheit Fair Enough”. “Seal Beach” incanta con la sua atmosfera rarefatta, e questa volta LaValle riesce davvero a commuovere. “Christiansands” mima una rock ballad, con tanto di batteria e chitarra arpeggiata, e lo fa nel migliore dei modi. “One Minute” è delicata e preziosa come una primula tra le nevi di marzo.

Ma la svolta definitiva avviene con il successivo album, per la realizzazione del quale Jimmy LaValle sceglie l’Islanda, “luogo dell’anima” più ancora che luogo di ispirazione e pullulante di fermenti artistici: oltre ai suoi sentori inconfondibili, “In A Safe Place” vede la copiosa partecipazione di illustri collaboratori provenienti dal Paese nordico, tra i quali spiccano come Jón Þor Birgisson e Kjartan Sveinsson dei Sigur Rós e Gyða Valtysdottir, violoncellista presente nei primi due album dei Múm.

Il definitivo connublio dell’artista californiano con atmofere e artisti nordici traspare evidente nel suono molto “islandese” dell’album, che per certi versi costituisce il degno seguito del capolavoro “( )” (all’epoca ancora in corso di scrittura), mentre per altri tratteggia una diversa intersezione tra tradizione ed elettronica rispetto a quella racchiusa dai Múm in “Summer Make Good”.

Nei riferimenti e nelle inevitabili aderenze stilistiche, non vi è tuttavia nulla di riduttivo, poiché anzi In A Safe Place rappresenta l’esito, compiuto e maturo, del percorso intrapreso da LaValle con The Album Leaf e finalizzato ben al di là della semplice ricerca di un suono liquido e avvolgente, che dalle chitarre è prevenuto a un dosato approccio all’elettronica. Le dieci tracce dell’album pervengono alla parziale conclusione di questa ricerca, amalgamati e arricchiti dalla costante presenza del romanticismo che fa da filo conduttore di tutto il lavoro. Le risultanze che si possono trarre dal complesso del lavoro non sono però univoche, ma lasciano una molteplicità di opzioni aperte, in parte difformi ma tuttavia sempre tra loro coerenti. Così, se in alcuni brani (“The Outer Banks” e “Another Day”) la componente elettronica è preponderante, in altri (“Thule” e “TwentyTwoFourteen”) si riscontra un suono molto più basato sulle chitarre e sul piano di LaValle e in definitiva molto più vicino a quanto finora prodotto da The Album Leaf, in altri ancora (“Moss Mountain Town” e “Over The Pond”, alla quale partecipa in voce lo stesso Jónsi) è marcata l’influenza dei Sigur Rós, seppure in maniera resa meno concettuale dalla contaminazione di altri elementi, incarnati dall’elettronica e dagli ariosi arrangiamenti.

Quanto più sorprende di “In A Safe Place” è proprio la capacità di proporre, senza apparenti contraddizioni, soluzioni sonore diverse che comprendono pure due vere e proprie ballate (“On Your Way” e “Eastern Glow”), in uno stile cantautorale del tutto peculiare, reso tale anche dall’inconfondibile voce dell’altro ospite illustre dell’album, ovvero Pall A. Jenkins.
L’esperienza umana e artistica vissuta in Islanda deve aver segnato profondamente LaValle, riempiendo di pathos e calda sostanza quanto in precedenza espresso sotto forma di tepore fioco e intermittente, tanto che anche dopo il suo ritorno a San Diego la sua ispirazione conserva intatte le immagini, l’atmosfera e le suggestioni del profondo Nord. Così, “Into The Blue Again” finisce per rappresentare la naturale continuazione del lavoro precedente, priva di ospiti e collaboratori d’eccezione, ma in grado di perpetuarne i suoni liquidi, le atmosfere ovattate e le frequenti aperture armoniche.
Nei dieci pezzi che compongono il lavoro ricorrono infatti gran parte degli elementi che contrassegnavano In A Safe Place, tuttavia non meramente riproposti nei loro aspetti formali, quanto invece introiettati, fatti propri da LaValle fino a costituire l’essenza più vera e personale di un’espressione artistica che proprio in note soffuse, battiti elettronici e folate di synth sembra aver trovato la propria definitiva consacrazione.

Di parzialmente difforme rispetto all’incantevole gemma che lo ha preceduto, “Into The Blue Again” presenta un ulteriore affinamento melodico, tradotto in particolare nelle tre vere e proprie canzoni, nelle quali LaValle abbandona la sua ritrosia nel cantare, coronando in un’efficace chiave pop le atmosfere rilucenti e vaporose di “Wherever I Go” e, soprattutto, completando l’efficacissima “Always For You” attraverso ritmiche elettroniche più decise.
Non di sole canzoni vive l’album, anzi le melodie e il cantato di LaValle rappresentano piuttosto un naturale punto d’approdo, indispensabile per conferire essenza comunicativa al sereno trasognamento che scorre su morbide linee disegnate dalle tastiere o su avvolgenti riverberi increspate da tenui linee elettroniche.
Fin troppo prossimo al disco che l’ha preceduto – in termini tanto temporali quanto stilistici – per non subirne l’ingombrante paragone, “Into The Blue Again” non è tuttavia lavoro da potersi liquidare con la sbrigativa patente di appendice priva di novità significative; e benché non riesca a eguagliare in tutto e per tutto l’ispirazione del predecessore, la crescita nella scrittura delle canzoni, un certo innalzamento ritmico ricorrente e il romanticismo da notturno nordico che traspare dagli arrangiamenti d’archi e dal pianoforte sono tutti argomenti sufficienti a conferire un’autonoma individualità a un disco che segna l’ulteriore stadio evolutivo della poetica di LaValle. Se infatti “In A Safe Place” poteva rappresentare un episodio estemporaneo della sua discografia, “Into The Blue Again” dimostra come, dopo tanto peregrinare artistico, l’artista californiano abbia trovato la propria dimensione ottimale, votandosi ormai definitivamente ad ambientazioni sfuggenti, che compendiano ascendenze post-rock, elettronica, romanticismo e piglio pop-tronico in una sintesi fortemente caratterizzante e ancora una volta lucidissima.

Dopo ben quattro anni di “blocco dello scrittore”, e in coincidenza col decennale del suo progetto artistici, LaValle continua a non guardarsi indietro, ma dentro, mettendo in discussione il suo stesso approccio con la musica, attraverso la trasformazione di The Album Leaf in una vera e propria band.
“A Chorus Of Storytellers” reca intatta la sua firma stilistica, supportata stavolta da una dimensione corale mai così pronunciata. Insieme a collaboratori quali il bassista Luis Hermosillo – suo vecchio compagno nei Tristeza – il polistrumentista Matthew Resovich e il batterista Timothy Reece, nel suo quinto album, LaValle stabilisce un pregevole equilibrio tra la parte elettronica e quella più “organica” delle sue composizioni ariose e puntellate da ricchi arrangiamenti.
Accanto alla maggiore articolazione strumentale, “A Chorus Of Storytellers” denota un’accresciuta attenzione per le componenti di scrittura, adesso tradotte in quattro canzoni dai contorni ben definiti, nonché un’accentuata presenza ritmica, che in particolare nella prima metà dell’album, insiste con una miriade di battiti, crepitii e field recordings su fondali elettronici che avvolgono in abbracci orchestrali e continui rilanci armonici. In pezzi quali “Blank Pages” e “Within Dreams” risuona il fascino nordico dei tempi di “In A Safe Place”, ma, ben lungi dal replicare formule già ampiamente investigate, LaValle lo eleva piuttosto a elemento intorno al quale modellare le increspature giocose e solari di “Stand Still” e il liquido onirismo melodico delle indovinate canzoni “There Is A Wind” e “Falling From The Sun”.

Superato il giro di boa del disco, si rimescolano le carte in tavola: il battito elettronico si ritrae, lasciando il proscenio a speculazioni sonore che nel volgere di pochi brani spaziano dalle sinuose derive ambientali e orchestrali di “Summer Fog” e “Until The Last” (sigurrosiane nell’attitudine, più ancora che nel suono) agli accenni di una percussività intricata e marziale, tuttavia ben presto smussata dai toni arrotondati di “We Are” e dalla dolce melodia di “Almost There”, forse il brano che meglio testimonia, per definizione melodica e del testo, la nuova, serafica dimensione artistica di Jimmy LaValle.

“A Chorus Of Storytellers” completa dunque la transizione di The Album Leaf dal monologo alla rappresentazione corale, in un discorso che si sviluppa in armonia, senza per questo rinunciare a tratteggiare paesaggi ora più che mai limpidi e sognanti, testimonianza di un raggiunto equilibrio e di una consapevolezza umana e artistica che, come di consueto per LaValle, non è certo sinonimo di appiattimento espressivo.

(in collaborazione con Roberto Mandolini, pubblicato su ondarock.it)

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