storie d’artista: BALMORHEA

Notturno lacustre per corde e archi

Originati dall’incontro tra il chitarrista Michael Muller e il pianista Rob Lowe, i texani Balmorhea rappresentano un’esperienza artistica del tutto peculiare, per la loro declinazione in chiave acustico-cameristica di retaggi classici, cadenze post-rock e reminiscenze di luoghi e tradizioni della loro terra. Quattro splendidi album in appena quattro anni hanno visto il duo trasformarsi in band comprendente un terzetto d’archi, consacrandone l’eleganza e le intense suggestioni tra i gioielli più puri degli anni 2000.

Austin, Texas: città tra le più attive dal punto di vista artistico tra anni 90 e 2000, fortemente connotata dalla fervente attività di band latamente riconducibili al post-rock, su tutte gli Explosions In The Sky.

Benché non di solo post-rock abbia vissuto e viva la scena artistica della capitale texana, in un certo senso è proprio da lì che parte l’esperienza di Michael Muller e Rob Lowe, musicisti di estrazione diversa che hanno posto la loro ispirazione e la loro perizia al servizio di quello che all’inizio poteva sembrare una declinazione in chiave acustico-cameristica di quel “genere” dai tratti indefiniti, ma che ben presto ha dimostrato di essere qualcosa di ben più ricco e irriducibile a rigidi schematismi classificatori.

Quando si incontrano casualmente mentre entrambi lavoravano presso un summer camp situato nella zona collinare del Texas, Michael si dilettava a suonare la chitarra, mentre Rob era già al culmine della sua formazione pianistica di natura eminentemente classica. Come capita quando si hanno interessi e gusti musicali in comune, ai due basta davvero poco per intendersi e di lì a poco viene loro naturale cominciare a suonare e a scrivere brani insieme.

Nasce così il nucleo fondamentale di quella che col tempo gradualmente si trasformerà in una piccola band da camera, il cui stesso nome proclama l’indissolubile legame dei suoi due membri fondanti con gli aspetti più aspri e incontaminati della loro terra d’origine e con i luoghi che hanno fatto da cornice al loro fortunato incontro: Balmorhea è infatti il nome di un bacino idrico artificiale situato in prossimità dell’omonima cittadina della contea di Reeves, una delle estreme propaggini occidentali del Texas verso il Messico, terra di contrasti tra vallate desertiche e declivi boscosi, tra aridi ammassi sabbiosi e, appunto, il ristoro vitale offerto dal lago.

I contrasti del territorio texano – al quale il duo mostrerà a più riprese di essere fortemente legato – e l’imponente placidità delle acque lacustri ricorrono nel picking discreto di Muller e nelle compunte partiture pianistiche di Lowe, che si intrecciano in un dialogo austero, talvolta persino puntuto, ma prodigo di un’emozionalità mai sovrastata da strutture compositive di accurata essenzialità.

Sono questi gli elementi essenziali miscelati nell’autoprodotto album omonimo che nel 2007 segna l’esordio del duo. Un inizio in sordina sia dal punto di vista dei mezzi realizzativi che da quello della distribuzione del lavoro. Eppure, grazie all’attività dal vivo e al passaparola sulla rete, “Balmorhea” comincia a circolare e a raccogliere consensi, evidenziando suggestioni acustiche e un minimalismo pianistico esteriormente accomunabile a quello di Max Richter o Arvo Pärt. Tuttavia, il contesto musicale tratteggiato a grandi linee nell’esordio dei Balmorhea è incline, piuttosto, a una rilettura in chiave acustico-cameristica di composizioni che alternano frammentazioni e cadenze riconducibili a un’elaborazione del post-rock nella quale confluiscano le trame desertiche dei primi Tristeza di Jimmy LaValle, le lontane linee guida jazzy dei 33.3 e gli esperimenti louisvilliani su tempi e strumenti condotti da band quali Sonora Pine e, soprattutto, Rachel’s. Difficile, infatti, non stabilire un qualche legame tra l’indimenticabile pianoforte di Rachel Grimes e quello suonato da Rob Lowe, parimenti in grado di stillare delicatezze romantiche e di ergersi in crescendo nervosi (come quello dell’ottima “If Only You Knew The Rain”).

Nonostante tali spunti e aderenze, è il contesto nel quale i Balmorhea si muovono fin dall’inizio a essere sostanzialmente diverso, distaccandosi in maniera significativa dai canoni del genere, attraverso una strumentazione ridotta all’osso, eppure più che sufficiente a rivelare i capisaldi di una musica che coniuga (post-)classicismo e distanti sentori folk, veicolati da un picking cristallino, che parimenti non sfocia mai in sterili virtuosismi. Le molteplici intersezioni tra pianoforte e chitarra – saltuariamente accompagnati dal banjo, da vocalizzi distanti e occasionali field recordings – danno così luogo a un lavoro che delinea a sufficienza i contorni entri i quali il duo si muoverà nell’immediato futuro, tanto dal punto di vista strettamente musicali quando da quello concettuale: lungo tutto il disco, infatti, note e tempi evocano le immagini della notte, del viaggio e dei grandi spazi disabitati ai quali Muller e Lowe si rifanno con una capacità d’astrazione che in pezzi quali “Baleen Morning”, “En Route” e del notturno lacustre “And I Can Hear The Soft Morning Rustling (As If Snow Were Skliding Down The Mountains)” si staglia già imponente e suggestiva, seppure non ancora del tutto compiuta, a causa della limitatezza dei mezzi a disposizione e di una certa timidezza compositiva.

La resa complessiva del disco è comunque decisamente apprezzabile, tanto da richiamare sui due musicisti l’attenzione della concittadina etichetta Western Vinyl, per la quale all’inizio del successivo 2008 viene licenziato il primo album ufficiale dei Balmorhea, che oltre a poter usufruire di una produzione più curata e professionale, si vedono affiancare da una sezione d’archi, chiamata ad arricchire di un più ampio respiro romantico le sparute composizioni presenti nel disco d’esordio.

Accanto alla trepidante emozionalità del pianoforte, che cattura fin dalle prime note dell’ariosa “San Solomon”, nel nuovo lavoro vi è non solo il latente romanticismo degli onnipresenti violino e violoncello, ma ricorre la solare limpidezza di un picking più deciso, che in qualche passaggio sfiora persino sfumature latineggianti.

All’interno di queste coordinate, che testimoniano la maturazione e l’accresciuto affiatamento tra i due musicisti texani, si muovono le quattordici composizioni raccolte in “Rivers Arms”, nel corso delle quali, a fronte a un’idea di fondo sostanzialmente uniforme, si alternano registri espressivi molteplici e notevoli variazioni tematiche e compositive. Benché infatti il pianoforte di Rob Lowe assurga a un ruolo centrale nella musica della band, le sue movenze attraversano con disinvoltura un ampio ventaglio di opzioni stilistiche, che spaziano dalla grazia austera di “Lament” e “Limmat” alla nervosa torsione emotiva della splendida “Barefoot Pilgrims”.

Per quanto possa apparire singolare, dati i suoi presupposti, “Rivers Arms” è un album interamente giocato su latenti contrasti musicali ed emotivi, su opposti percettivi che si attraggono, fino a trovare un bilanciamento perfetto e di straordinaria naturalezza.

La medesima coniugazione di immagini è valida anche per le suggestioni evocate dai brani, in prevalenza improntati a un sereno raccoglimento, eppure continuamente cangianti, dalla luminosa contemplazione di paesaggi sterminati all’intimo abbraccio delle residue piéce pianistiche minimali, nelle quali sono sufficienti gli interstizi tra le note per togliere il respiro e conseguire un risultato di semplice e asciutta intensità.

È in una dimensione onirica e in una stagione atemporale, che si colloca la musica dei Balmorhea, a metà tra le assolate note acustiche di “The Summer” e l’impeto sublime di “The Winter”, tra l’arioso romanticismo delle tante melodie leggiadre e l’inquietudine claustrofobica di “Context” e “Process”, i due brani nei quali prendono il sopravvento involuti field recordings, disegnando statiche nature morte, prossime a territori dark-ambient.

Opera ben più complessa di quanto possa apparire in superficie, “Rivers Arms” rivela lo splendore delle tante sfaccettature di un cristallo opaco, ma di limpida purezza, che consacra lo stile della band attraverso la lucida classe compositiva dei suoi autori e la dolcezza crepuscolare di trame sonore dense di tante emozioni fragili ma persistenti.

A conferma della notevole vitalità espressiva dei Balmorhea, un nuovo intervallo di appena un anno separa l’incanto di “Rivers Arms” dal successivo “All Is Wild, All Is Silent”. Il breve periodo intercorso è tuttavia sufficiente per ripresentare la band sensibilmente trasformata nella sua stessa struttura e, in parte, anche nell’ispirazione. Quest’ultima si ricollega alla storia remota del Texas, tanto che tutto l’album si atteggia quale diario di un colono vissuto nel XIX secolo, mentre dal punto di vista realizzativi si presenta come il prodotto di una formazione più articolata: l’originario duo si è infatti nel frattempo ampliato a includere la batteria e uno stabile terzetto d’archi (Aisha Burns, Travis Chapman e Nicole Kleen).

Al più articolato impianto strumentale corrisponde un’evoluzione nell’impronta stilistica dei Balmorhea, nel frattempo attestatasi in un sobrio ensemble da camera, intento a esplorare le molteplici sfaccettature di un suono che spazia da timbriche sfumate a decise sensazioni bucoliche, filtrate attraverso un curatissimo romanticismo armonico.

La maggior parte delle composizioni comprese in “All Is Wild, All Is Silent” sono infatti costruite per progressive stratificazioni di elementi, con inserti strumentali e melodie che si protendono e si ritraggono come una brulicante marea.

Il fulcro del lavoro permane ancorato agli splendidi florilegi di pianoforte e violino già apprezzati in “Rivers Arms”, intorno ai quali gravita una pluralità di soluzioni compositive, che sfociano in una sorta di colonna sonora per aspre distese assolate ma anche in volute acustiche dalle tinte latineggianti, ora placide ora briose, come nel caso del festoso handclapping che corona l’iniziale “Settler”. Benché non manchino interludi notturni e schegge di pianoforte solitario, “All Is Wild, All Is Silent” presenta continue riletture e trasformazioni della formula-base della band, attraverso un sapiente dosaggio di tempi, toni e melodie.

L’affacciarsi di venature folk sulle corde del banjo e del mandolino (“Remembrance”, “Night In The Draw”) e, in alcuni passaggi, dei vocalizzi di Jesy Fortino completano il quadro di un lavoro sapientemente curato, frutto di un’ispirazione genuina e ben più complessa di quel che potrebbe apparire a un’analisi superficiale. In questa rinnovata veste, la band texana offre la propria peculiare interpretazione di una sobrietà romantica, che coniuga descrittivismo, spunti dalla tradizione e intensità espressiva con una classe paragonabile soltanto a quella dei migliori Dirty Three (ai quali è difficile non pensare almeno ascoltando gli ultimi due minuti di “Harm And Boon”).

Ancor più ricco di sfaccettature, ma anche più cerebrale rispetto alla fragile emozionalità del delizioso predecessore, “All Is Wild, All Is Silent” rappresenta una validissima conferma per una band capace di tracciare una linea evolutiva per una formula musicale che solo attraverso simili trasformazioni riesce a dimostrare di non aver smarrito le proprie potenzialità.

L’attitudine alla “trasformazione nella continuità” evidenziata in “All Is Wild, All Is Silent” viene confermata e anzi accentuata nella peculiare operazione che ha avuto ad oggetto l’album a pochi mesi dalla sua pubblicazione. La quasi interezza del disco è stata infatti sottoposta a un’operazione di rimaneggiamento ad opera di numerosi artisti, segnatamente operanti in territori di musica elettronica e ambientale. Tra i nomi coinvolti, spiccano Eluvium, Xela, Helios e Library Tapes, tutti impegnati in una rielaborazione dei brani originali secondo la propria impronta artistica che non rende “All Is Wild, All Is Silent Remixes” (pubblicato in poche centinaia di copie soltanto su vinile) non una semplice appendice ma un’opera avente una propria autonoma identità, nel suo tentativo di “riempimento” degli spazi lasciati vuoti dalle trame cameristiche della band texana attraverso un ampio catalogo di flutti elettronici, glitch, drone e rumorismi assortiti.

A conferma della prolificità della band, nel giro di appena dodici mesi è già tempo per un nuovo album, il quarto in quattro anni: con i suoi trentotto minuti, “Constellations” è il lavoro più breve dei Balmorhea e fin dalle intenzioni dei suoi autori si atteggia in termini decisamente più minimali rispetto al predecessore.

Ciononostante, il lavoro risulta alquanto complesso, poiché in esso si assiste a una continua ricombinazione di elementi strumentali e stilistici, attraverso la quale la band riassume, con straordinaria perizia tecnico-emotiva, una pluralità di registri che evidenziano le ispirazioni del suo recente passato e il suo caratteristico stile presente.

Concettualmente dedicato al tema della notte, “Constellations” è un album tutt’altro che cupo, incentrato com’è ancora sui due principali capisaldi di tiepide note acustiche e intense piéce pianistiche. Ben lungi dal costituire una declinazione più essenziale di quanto già espresso nei due album precedenti, “Constellations” sembra piuttosto il frutto di tanti piccoli esperimenti di segmentazioni e incastri nei quali la band ha concentrato tutta la propria tensione compositiva ed emozionale, finalizzandola al conseguimento di un equilibrio insuscettibile di alterazione, pur a fronte delle continue intersezioni tra binomi strumentali e trasformazioni di sfumature.

Ne risulta un minimalismo incredibilmente sfaccettato, la cui modulazione di timbriche e cadenze percorre tutto il lavoro ridisegnandone di continuo i contorni, nella toccante essenzialità pianistica di “To The Order Of Night” e “Winter Circle”, negli spogli intrecci tra chitarre e banjo di “Bowsprit” e “Herons”, ma anche gli accenni jazzy del contrabbasso, la ricorrente disomogeneità melodica pianistica, l’irrequietudine degli archi della conclusiva “Palestrina” e la persistenza d’organo che dona densità e lontane cadenze post-rock ai rilanci armonici dell’intensissima “On The Weight Of Night”, uno dei pezzi più commoventi dell’intera produzione della band texana.

I mille dettagli rifiniti dal cesello sapiente dei Balmorhea fanno di “Constellations” una nuova prova di altissimo livello che conferma l’unicità in divenire di un’esperienza artistica fuori dal tempo che, coniugando perfezione formale e capacità comunicativa, resta fedele alla propensione di Rob Lowe e Michael Muller a mettersi in discussione album dopo album, sia dal punto di vista dell’articolazione strumentale che dell’ininterrotta esplorazione di sospensioni temporali e registri compositivi.

(pubblicato su ondarock.it)

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.