storie d’artista: THE PAINS OF BEING PURE AT HEART

Pop per puri di cuore

Tra ritmi serrati, distorsioni di fondo ed eteree dolcezze melodiche in salsa shoegaze, il quartetto newyorkese non si limita a perseguire una formula musicale (l’indie-pop), né un’estetica alla quale aderire, ma gioca con freschezza tra intuizioni e rimandi.

La breve parabola del quartetto newyorkese The Pains Of Being Pure At Heart può considerarsi paradigmatica di come l’immarcescibile germe del pop torni periodicamente ad attecchire a livelli di popolarità niente affatto trascurabili, con buona pace di intellettualismi, avanguardismi e pure di quei fenomeni costruiti a tavolino nell’aria stantia di qualche ufficio marketing.

La storia della band – delizioso nome a parte – comincia come quella di tante altre destinate a permanere appannaggio di pochi inguaribili cultori dell’indie-pop. È il 2007 quando un Ep autoprodotto di cinque tracce comincia a circolare nel sottobosco degli appassionati, trascinato dallo scatenato brano di apertura “This Love Is Fucking Right!”, concentrato twee di zucchero, chitarre british primi anni 90 e (dis)incantata spontaneità post-adolescenziale.

L’Ep suscita l’interesse di una piccola grande istituzione del settore, la benemerita etichetta della Florida Cloudberry, che ripubblica in formato 3” tre di quei brani. È l’inizio della rapidissima ascesa della band, che ben presto approda su Slumberland, snocciolando da subito una serie di brani-killer, prima nello split con i Summer Cats (“Come Saturday”) e poi con i 7” “Everything With You” e “Young Adult Friction”.

L’omonimo album di debutto è dunque quasi una formalità, o comunque la diretta conseguenza della pimpante verve della band, in perfetto equilibrio tra giocosa vena indie-twee-pop e una miriade di riferimenti possibili (ma mai in maniera univoca) all’Inghilterra di un paio di decenni addietro. Negli appena trentaquattro minuti di durata dell’omonimo esordio sulla lunga distanza, il quartetto guidato dal cantante e chitarrista Kip Berman e dalla folticrinita tastierista dai tratti orientali Peggy Wang non si limita a perseguire una formula musicale, né semplicemente un’estetica alla quale aderire.
The Pains Of Being Pure At Heart rendono sì palese tributo a sonorità ed esperienze ben individuabili, ma lo fanno attraverso due elementi essenziali per evitare agilmente il rischio di appiattimento in emulazioni pedisseque, in questi casi sempre dietro l’angolo: da un lato, la freschezza nella scrittura di pezzi immediati e personali, dall’altro, la capacità di lambire molteplici riferimenti, in combinazioni equilibrate e in continuo divenire.
Ferme restando le costanti dei ritmi serrati e della scissione tipicamente shoegaze tra distorsioni di fondo ed eteree dolcezze melodiche, lungo i dieci pezzi dell’album si sussegue infatti senza soluzione di continuità un’ampia rassegna di sfumature, che vanno dalle radici dei Jesus & Mary Chain e della Sarah Records alla Scozia di Pastels e Teenage Fanclub, passando per le componenti più pop e sognanti di My Bloody Valentine e, soprattutto, Lush.

L’efficacia dei frequenti intrecci vocali, sempre lievi e inafferrabili, si affianca dunque a pastosi vortici elettrici, creando melodie che entrano facilmente in circolo, anche grazie alla generale concisione di brani che in più di un’occasione (“The Tenure Itch”, l’incipit di “Stay Alive”) sembrano delineare una sorta di twee-pop irrobustito dalle cadenze della batteria o immerso in una seducente coltre di feedback. I ritmi sono però in prevalenza incalzanti e assumono a tratti oscure venature dark-wave, come quelle evocate dal basso profondo di “Young Adult Friction”, ma pur sempre alleviate dalla melodia, collante essenziale delle tante variazioni proposte con grande naturalezza dalla band americana. Notevole è infatti la versatilità dimostrata nei passaggi da turbini shoegaze a un caracollante andamento jingle jangle, da febbrili cadenze elettriche a un soave lirismo pop.

All’album – che ben presto riscuoterà ottimi consensi di critica e di pubblico – tiene dietro di qualche mese l’Ep “Higher Than The Stars”, che comprende altre cinque tracce che palesano uno spettro di interessi “archeologici” ancora più ampio e disorientante rispetto al recente passato. Nella title track cominciano a prendere il sopravvento le tastiere, bilanciate da uno spiccato lirismo smithsiano e ancora costellate da ondate di feedback (“103”) o da eteree declinazioni twee (“Falling Over”).

Fedele al formato vintage del singolo, nel 2010 la band ne pubblica altri due, il delizioso “Say No To Love”, che riprende e sviluppa tematiche e suono del primo disco, e lo scanzonato “Heart In Your Heartbreak”, che conferma l’accresciuta attenzione per intersezioni tra tastiere e chitarre secondo registri sempre molto godibili ma ormai più prossimi alla predominante estetica indie che non alla sola genuinità pop delle origini.

È il preludio al secondo, attesissimo disco, “Belong”, che segna la transizione di “livello” del quartetto verso una formula più ricercata e curata in fase di produzione e mixaggio – affidati rispettivamente a Flood e Alan Moulder – ma anche dal gusto più abboccato per le papille del pubblico midstream.
Non che il cocktail noise-pop dal sapore eighties, a base di feedback e sognanti melodie post-adolescenziali, abbia subito chissà quali stravolgimenti, tuttavia buona parte delle dieci canzoni di “Belong” accentuano da un lato l’enfasi sul ruolo delle tastiere e dall’altro denotano un significativo ispessimento delle parti chitarristiche, adesso più di sovente abrasive e sferraglianti che non languide e brillanti.
L’incipit dell’album propende decisamente in tal senso, lasciando in secondo piano le suggestioni british anni 80-90 che una miriade di riferimenti hanno fatto sprecare ai tempi del debutto; a “rimediare” provvede la parte centrale del disco, che ne segna altresì quella più riflessiva, con la soffice malinconia made in Sarah Records della decadente “Anne With An E” e le brillanti tastierine, in odor dei Cure più pop, che avvolgono “The Body” in un abbraccio grondante desiderio.

Pur non eccellendo quanto a vere e proprie melodie-killer, il pop più incontaminato affiora ancora nell’accoppiata “Even In Dreams”-“My Terribile Friend” (tra i pezzi meglio riusciti dal punto di vista della scrittura), mentre il finale è lasciato tutto alle residue patine dreamy delle languide cascate di feedback di “Too Tough” e “Strange”. In questo segmento del disco, oltre che nella citata “Anne With An E”, tornano ad affacciarsi umori da grigio sobborgo industriale britannico e immagini di giovani musicisti con i capelli sugli occhi, materializzate anche dal tono delicatamente trasognato delle interpretazioni di Kip Berman, di tutta evidenza più appropriate a questi registri eterei che non quando i ritmi si fanno più incalzanti e chitarre e tastiere un po’ troppo roboanti.
E, con ogni probabilità, proprio l’eccesso di sovrastrutture produttive – tuttavia perfette per venire incontro al gusto prevalente del momento – rappresenta il prezzo che il quartetto newyorkese deve pagare in termini di spontaneità espressiva alle aspettative riposte in questa sua seconda prova da parte dei trendsetter indipendenti. Eppure, non si tratta necessariamente di un male, almeno in presenza di quel sacro fuoco del pop e della qualità di scrittura che accompagna gran parte delle canzoni di “Belong”, che attestano con pieno merito The Pains Of Being Pure At Heart quali punta dell’iceberg dell’indie-pop-rock degli anni Dieci.

(pubblicato su ondarock.it)

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