PETE ASTOR – Songbox
(Second Language, 2011)

Alzi la mano chi si ricorda di Pete Astor al solo sentirne citare il nome. Eppure, l’artista inglese ha alle spalle ormai un quarto di secolo di attività, dagli albori della Creation con i Loft e i Weather Prophets all’esperienza di Wisdom Of Harry, fino alla recente collaborazione con Dave Sheppard in Ellis Island Sound, passando per alcuni discontinui episodi solisti, concentrati all’inizio degli anni Novanta e poi replicati in maniera estemporanea nel 2004 con “Hal’s Eggs”, quando ormai la sua carriera principale era diventata quella di accademico dei linguaggi musicali popolari.
Nel lungo tragitto che l’ha condotto da giovane rocker a maturo sperimentatore elettroacustico, Astor ha sempre mantenuto latente, sullo sfondo, una peculiare indole folk – raffinata, romantica, persino lievemente oscura – che oggi trova compiuta espressione nel suo nuovo ritorno, supportato da numerosi componenti del cenacolo artistico della Second Language, etichetta codiretta proprio dal suo vecchio sodale Dave Sheppard.

Una folgorante anticipazione di quel che Astor aveva in serbo per questo suo “Songbox” si era avuta già un anno fa, quando “Tree Of Birds” risaltava come autentica gemma di romanticismo bucolico nella compilation-magazine “Vertical Integration”. A quel brano ne sono ora affiancati altri dieci, tutti racchiusi in una confezione che, nella sua particolarità, rispecchia in maniera estremamente fedele il titolo dell’album.
“Songbox” si presenta infatti sotto forma di una scatola, un piccolo portagioie di cartone riciclato, al cui interno insieme al cd sono collocate dodici cartoline realizzate ad hoc da vari artisti visuali e recanti sul retro ognuna il testo di un brano, nonché le note di copertina dell’album.
La cura abitualmente riposta dalla Second Language nel confezionare gli oggetti destinati ad accogliere i suoi dischi corrisponde a sua volta a quella del contenuto di “Songbox”, che coniuga il sinuoso songwriting di Astor con un variopinto bouquet di arrangiamenti, modellato secondo una pluralità di registri, tra gli altri, dallo stesso Sheppard (chitarra, basso, piano, organi, glockenspiel), da Keiron Phelan (flauto, banjo, percussioni) e da Angèle David-Guillou (voce e piano elettrico).

Il risultato è un canzoniere sfaccettato che, mescolando fumose ambientazioni da crooner, levità pop e frizzanti brezze bucoliche, si muove con consumata disinvoltura tra nostalgie adolescenziali e consapevoli constatazioni della maturità, tra humour sottile e riflessioni sull’amore depurate tanto dai toni stucchevoli quanto dal facile cinismo (la deliziosa “Four Letters Word”).
Si comincia con l’incedere svelto e con le ricche orchestrazioni di “Dead Trumpets”, sulle quali la vellutata voce di Astor disegna melodie agrodolci, mentre fiati, ritmiche e i backing vocals di Angèle creano da subito una danza irresistibile ma raffinatissima che, come confermerà il seguito del lavoro, lambisce appena tanto Cohen quanto Brel. Gli stessi ingredienti di romanticismo e mistero ricorrono poi in “The Ride” e “Four Letter Word”, virando quasi verso un dondolante swing in “Slip Away”.

In parallelo, si manifesta l’anima bucolica del disco, esaltata dai ricorrenti zufoli del flauto di Phelan e del clarinetto di Jenny Brand e ulteriormente ingentilita dai dialoghi con la voce di Angèle; nascono così quadretti idilliaci come quelli della già edita “Tree Of Birds” e della limpida ninnananna “Sleepers”, mentre lo stesso spirito pervade anche i passaggi nei quali riaffiora la vena pop da vecchia Inghilterra di Astor, segnatamente la fiorita e nostalgica “Tiny Town” e la suadente “The Perfect Crime”, pervasa da uno spirito decadente che rimanda alle raffinatezze dandy degli Auteurs.
Non mancano nemmeno momenti più austeri e compassati, soprattutto nella parte finale del disco, che culmina col saggio di romanticismo e disillusione al pianoforte che risponde al titolo di “Mistress Of Songs”, suggello di un lavoro che trasuda una classe, decantata per lunghi anni, davvero rara da riscontrare in produzioni di questi anni. L’immaginario pop di Astor e il rinnovato contesto stilistico creato dai musicisti che hanno collaborato all’esecuzione dei brani ne fanno dunque un’opera piacevolmente fuori dal tempo, da assaporare con calma come un vino invecchiato, capace di regalare un calore che non potrà mai passare di moda.

Ulteriore prova ne sia il secondo cd accluso alle prime trecento copie di “Songbox”, che replica la tracklist dell’album sotto forma di cover affidate ad artisti di estrazione e collocazioni temporali diverse, quali tra gli altri Dollboy, Darren Hayman, Comet Gain, Pete Greenwood, gli stessi Piano Magic e le Raincoats, che tirano fuori dal cilindro una sorprendente versione di “This Perfect Crime”. Insomma, un misto di forma e contenuto che offre tanti validi motivi per non farsi sfuggire questa scatola piena di canzoni e piccole perle.

(pubblicato su ondarock.it)

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