HHYMN – In The Depths
(Denizen, 2011)

Nessun’aura da next big thing, nessuna promozione discografica alle spalle; l’unico elemento in grado di richiamare l’attenzione su un manipolo di ragazzi di Nottingham che si fanno chiamare Hhymn è forse proprio la doppia acca del nome che si sono scelti per designare la musica frutto della loro ispirazione di scrittura e arrangiamento.

La breve storia della band comincia nel 2008, sotto forma di un duo fondato da Ed Bannard e Simon Ritchie; ben presto ai due si aggiungono un batterista, un bassista e la polistrumentista Amy Helliwell al glockenspiel, all’organo e alla tromba. La band così completata comincia l’immancabile trafila di festival ed esibizioni in supporto di musicisti più quotati, corredata dalla pubblicazione di un paio di singoli grazie alla piccola ma avveduta etichetta Denizen.

È così tempo, finalmente, per una prova sulla lunga distanza, che ai due singoli (“These Hands” e “Girl Of Mine”) associa numerosi altri brani, dai quali giunge decisa conferma di una profondità espressiva non poi così diffusa tra tanti decantati fenomeni dell’indie-folk britannico (e non solo).

La conseguita ampiezza di soluzioni strumentali permette agli undici brani di “In The Depths” di rivelare in maniera compiuta l’attitudine melodica di una narrazione densa di lirismo romantico e sorprendentemente positiva e vitale, nonostante sia per ampi tratti incentrata su temi malinconici.

Il cantato ciondolante di Bannard e la sua voce che a tratti consegue registri oscuri, di inusitata profondità emotiva (in qualche passaggio sembra quasi di risentire Tim Booth o Patrick Duff), fungono da viatico per storie di abbandoni, solitudini e assenze, che tuttavia nel generale piglio da orchestrina folk – e talora da camera – trovano complemento al tempo stesso teatrale e brillante.

Se nell’iniziale “These Hands” possono scoprirsi riecheggiare tonalità narrative fluide come quelle degli Okkervil River o dei primi Noah And The Whale, il continuo alternarsi di atmosfere notturne e ambientazioni vivaci, di riff elettrici, tappeti d’organo e aperture orchestrali conferisce quasi a ogni brano caratteri riconoscibili e una spinta propulsiva in grado di destare l’attenzione anche del distratto ascoltatore dei giorni nostri.

Fondamentale per tale risultato è il cospicuo contributo della tromba della Helliwell, che acuisce i tratti folcloristici di ballate ora meste ora scatenate, gettando un ponte verso le tradizioni mitteleuropee che, ad esempio, Zach Condon non è mai riuscito a introiettare da un punto di vista culturale né a completare con canzoni tanto valide. Prove ne sono, tra le tante, il romanticismo corale di “Not Before I Go”, i perfetti innesti strumentali di “Wolves”, l’orchestralità ricca e scatenata di “Behind The Sun” e “Slow Life” e persino il ricco sottobosco armonico della conclusiva “On My Mind”, che coniuga con decisione i sentori folk di tutto “In The Depths” con cadenze melodiche non poi così distanti da quelle degli Arcade Fire.

Ma è nell’agrodolce vivacità con cui viene narrato un addio in “Girl Of Mine”, nell’elegante cammeo cameristico dell’acustica “Papertrail” e nella briosa verve di “Land Of Souls” che gli Hhymn esprimono al meglio un profilo stilistico, a suo modo, inconsueto e comunque assai distante dalla standardizzazione al gusto indie che tanto ha arriso a un altro recente debutto inglese dello stesso ambito, quello dei Mumford And Sons.

“Oh my love/ Oh my darling/ What a terrible waste of a beautiful morning” canta Bannard, sublimando la sua poetica nella toccante “Land Of Souls”; il mattino artistico dei suoi Hhymn è radioso, e se a loro sta il compito di non disperderlo, a chi ama le sonorità indie-folk spetta quello di scoprirli e di apprezzarne un merito che va ben al di là dell’ampiezza dei circuiti distributivi e di quelli della stampa specializzata più in auge.

(pubblicato su ondarock.it)

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