SHADY BARD – From The Ground Up
(Static Caravan, 2007)

Se è vero che, da qualche tempo a questa parte, il classico indie-folk rappresenta terreno di ricerca sonora e sperimentazioni varie, può anche dirsi che non tutti gli ambiziosi tentativi di sviluppo di radici musicali folk producono risultati apprezzabili e soprattutto coerenti con il retroterra culturale e artistico di partenza. Quando invece le reminiscenze della musica tradizionale vengono declinate in maniera semplice e sono supportate da gusto e capacità di scrittura, può capitare di trovarsi di fronte ad opere che, come quella che ci si accinge a illustrare, uniscono un gusto bucolico dal sapore antico a una sensibilità fresca e moderna che, senza pretese di forzata innovazione, lambisce stili diversi, dando luogo a un suono originale, pur debitore di ispirazioni molteplici ma sfuggente ad accostamenti univoci.

L’opera in oggetto è il debutto sulla lunga distanza degli Shady Bard, quintetto inglese che già aveva suscitato discreta attenzione grazie a due Ep pubblicati lo scorso anno (“Treelogy” e “Penguins”), con la sua eterogenea miscela di elementi acustici e orchestrali, di melodie sognanti e inattese impennate elettriche. “From The Ground Up” raccoglie, infatti, gran parte dei brani compresi in quei singoli, cui vengono accostate altre composizioni ad esse accomunate da una lieve vena melodica, arricchita da spunti corali e, soprattutto, da una strumentazione che non si limita a chitarre elettriche e acustiche, basso e percussioni, ma spazia ampiamente dall’armonica agli archi, dal glockenspiel a moderati samples elettronici, fino al contributo del pianoforte, decisivo in molti degli undici brani dell’album.

Nelle undici tracce di “From The Ground Up”, la band inglese pone in maniera sensibile l’accento sulle melodie, che scorrono su chitarre liquide, incastonate in curatissimi arrangiamenti di trasognata nostalgia, ora ammantati di spiccati accenti pop – come nell’iniziale “Fires” e in “These Quiet Times” – ora intese a completare i cammei di arioso chamber-folk di “Memory Tree” e della strumentale title track. Ma è l’ampiezza del registro espressivo degli Shady Bard a rendere la loro opera degna di nota, pur in un ambito musicale in cui non mancano tanti altri validi artisti; non è, infatti, per nulla comune trovare accostati, nello stesso lavoro e senza evidenti cesure, ai citati accenni di romanticismo orchestrale, canzoni in bilico tra moderate tentazioni “indie”, reminiscenze del più classico rock melodico britannico e spunti assimilabili ad alcuni dei più importanti nomi dell’indie-rock attuale.

Tale complesso patchwork musicale può dirsi riuscito molto bene agli Shady Bard, se è vero che, senza cadere in emulazioni evidenti, riescono a lambire tanto un lirismo di impronta smithsiana quanto le sognanti atmosfere dei Sigur Rós (facilmente evocate dal finale di “Torch Song”), tanto a stemperare certe ridondanze pop degli Arcade Fire, quanto a cavalcare crescendo elettrici non poco impetuosi, come quelli di “Treelogy” e della meravigliosa “Penguins”, brano ricco di variazioni e dall’impatto davvero immediato.

In maniera analoga ai connazionali Tunng, seppur seguendo un percorso musicale sostanzialmente diverso, gli Shady Bard conducono un’interessante opera di reinterpretazione di tradizioni musicali antiche e moderne, in una chiave artistica difficilmente in grado di impressionare, eppure spontanea e quasi mai prevedibile.

(pubblicato su ondarock.it)

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