intervista: PORT-ROYAL

Attilio Bruzzone ed Ettore Di Roberto raccontano la genesi di “Dying In Time”, lavoro articolato, le cui mille sfaccettature sono andate ben oltre le aspettative per una semplice accelerazione ritmica dei loro brani. L’interessante scambio è anche un’occasione per analizzare la dimensione internazionale innegabilmente conseguita dalla band e per uno sguardo molto sentito sul modo di fare e trattare la musica in Italia.

Come già “Afraid To Dance” lasciava presagire, nel nuovo album avete spinto di più sui ritmi, senza però rinunciare agli altri caratteri della vostra musica: è invece cambiato qualcosa nel modo in cui l’avete composto e realizzato?
Dal punto di vista compositivo e realizzativo, “Dying In Time” (2006-2008) si pone senza soluzione di continuità rispetto al passato, rappresentando un po’ la fine di una trilogia cominciata nel 2002-2004 con la lavorazione di “Flares” e proseguita con “Afraid To Dance” nel 2005-2006. In questi anni il nostro modo di fare i dischi, pur ovviamente evolvendosi specie nei particolari, è rimasto fondamentalmente sempre lo stesso: la nostra stanza, il pc, i sintetizzatori, le chitarre e qualche altro strumento, l’accumularsi delle tracce nei progetti, un gran lavoro sui programmi e sulle varie tracce, mesi e mesi di rielaborazione dei pezzi; l’idea melodica di partenza, le sue variazioni, ulteriori stratificazioni melodiche e l’organizzazione interna di tutte queste, la scelta degli arrangiamenti…

Fin dall’inizio, prima con le pubblicazioni per la Resonant, poi per le varie collaborazioni in giro per il mondo, vi siete atteggiati come una band votata alla dimensione internazionale. Cosa ha apportato al disco la vostra esperienza e il contatto con tanti artisti stranieri?
Non tantissimo, a dir la verità, nel senso che la nostra idea estetica di base l’avevamo già creata per conto nostro (indipendentemente dagli incontri che poi si sarebbero verificati) in precedenza e tecnicamente siamo cresciuti pure da noi, senza l’apprendimento di particolari trucchi del mestiere da chi magari aveva più esperienza di noi sul campo. Questo significa che i Port-Royal, così “internazionali”, sono una realtà abbastanza sui generis, da questo punto di vista. Sia chiaro, ciò non significa che in questi anni non si sia legato con parecchi musicisti e ci si sia scambiati opinioni, consigli e magari anche ispirazioni, lavorandoci insieme o semplicemente parlando, anzi è vero proprio il contrario (remix, collaborazioni e amicizie parlano chiaro), solo che non si è trattato di qualcosa di determinante per la nostra estetica di base. Poi, più concretamente, i contatti all’estero creati in questi anni hanno di sicuro facilitato le collaborazioni presenti sul nuovo disco (basti pensare in special modo ai vari apporti vocali dalla Polonia e dal Giappone), grazie a cui il lavoro si è arricchito e ha acquisito ulteriori sfumature; non si tratta però di rivoluzioni del suono.

Siete molto popolari soprattutto nell’Europa dell’Est: trovate qualche differenza nell’accoglienza del pubblico italiano e di altri Paesi?
Guarda, per quel che concerne l’esperienza live, abbiamo spesso ripetuto che, in effetti, l’approccio del pubblico russo, polacco, slovacco o jugoslavo – o più in genere non occidentale – è diverso da quello cui siamo abituati alle nostre longitudini: le persone vengono alle serate con meno filtri, si lasciano trasportare (sarà anche per i volumi esagerati tipici dei locali di laggiù!), finiscono per ballare nei momenti più ritmati del nostro repertorio. È una bella sensazione davvero: tutto davvero risulta meno analitico e più spontaneo, come alla fine dovrebbe essere la fruizione del concerto.

Invece nella critica? Non è che il provincialismo che spesso porta a esaltare artisti compatrioti, nel vostro caso può funzionare al contrario? Non trovate limitante l’essere giudicati ogni volta in quanto italiani, anziché soltanto per la musica che fate?
Completamente d’accordo. Il nostro esordio, a parità di contenuti, sarebbe stato recensito diversamente, presumibilmente in maniera meno entusiastica, dalle varie riviste specializzate se invece che per la Resonant fosse uscito per un’etichetta nostrana oppure se fossimo stati stranieri (e pubblicati sempre da un’etichetta straniera): ne siamo abbastanza certi. Come è altrettanto certo che mediaticamente il fattore “ragazzi di Genova che pubblicano per un’etichetta inglese” fu evidenziato parecchio. Ancora oggi ci capita di sentire ai concerti nostri fans complimentarsi dicendoci che non sembriamo affatto un gruppo italiano… con questo è naturale e giusto essere anche “fieri” che una realtà italiana indie sia apprezzata all’estero (e pubblicata da etichette straniere): non c’è nulla di male in ciò, anzi. Solo che non bisognerebbe ridurre tutto a questo, altrimenti si perde la misura delle cose.
Dall’altro lato però (e questo è un fatto curioso), certa critica italiana ancora si rifiuta si vederci come una realtà completamente internazionale quale invece siamo e sembra dire “però, davvero bravi per essere italiani… ma alla fin fine rimangono italiani”, come se l’essere italiani rappresentasse un marchio negativo da riscattare tramite l’apprezzamento e la “fama” all’estero. Questo fa vedere come secondo tale critica, alla fin fine non si possa comunque competere con gli artisti stranieri solo perché appunto si è italiani e come questi ultimi non possano che restare sempre avanti e su di un livello superiore (ma solo perché stranieri!); ecco questo è estremamente sbagliato, perché riduce il talento individuale a un fattore di nazionalità incappando in vari errori susseguenti. Pensa in concreto al nostro caso: molti recensori ci hanno bollato (e secondo noi a torto) come “i Sigur Rós italiani” e si sono sprecati gli accostamenti Genova-Islanda, che abbiamo nuovamente sempre rifiutato con decisione, in quanto non sentiamo quelle zone vicine a noi e alla nostra musica né esteticamente né esistenzialmente. Infatti, ciò è falso anche e soprattutto da un punto di vista estetico (pur stimando il gruppo islandese in questione, che è anche il migliore che l’Islanda abbia prodotto, non ne siamo mai andati matti né lo abbiamo ascoltato molto, tant’è vero che non lo abbiamo mai riconosciuto tra le nostre influenze), e non è comunque di certo un bel “servizio” da rendere a un gruppo emergente (mi riferisco soprattutto al 2005, in occasione dell’uscita di “Flares”, nostro primo album ufficiale) e italiano (quindi già per questo “sfigato”, secondo il loro ragionamento anche se non lo dicono apertamente) l’etichettarlo immediatamente come la versione italiana (= provinciale) di un famoso gruppo straniero (quindi ovviamente già migliore): questo è già uno sminuire in partenza, un tagliare le palle sin dall’inizio, anche se comunque in Italia (come altrove per fortuna!) si è parlato benissimo di “Flares”, al pari di “Afraid To Dance” in seguito. Ma la domanda è: perché questa smania del paragone e di ridurre tutto ad esso, perché non si pensa globalmente e si deve vedere quel che è italiano come qualcosa che già a priori è inferiore e/o non può avere una propria consistenza senza necessariamente essere una versione locale di qualche gruppo estero (globale)? Noi personalmente non soffriamo assolutamente questo complesso di inferiorità nei confronti degli artisti stranieri anche perché sin dall’inizio ci siamo abituati a muoverci in un contesto internazionale e a riconoscere quel che è buono a prescindere dalla provenienza geografica.
Quindi ci troviamo di fronte a due tipi opposti di provincialismo ma convergenti alla fine nel medesimo errore: quello di prospettiva e di mancanza di obiettività. L’uno “tradizionale” ma più onesto: cioè quello chiuso, di chi è partecipe solo della sua piccola realtà locale (italiana in questo caso) e del suo orticello, senza considerare tutto ciò che ne è immediatamente al di fuori; e un altro più subdolo, mascherato e in ultima analisi ipocrita, cioè quello che noi chiamiamo il “provincialismo complessato” consistente nell’incensare tutto quel che viene da fuori perché “altro” e distante in quanto tale (appunto perché viene da fuori) e nel ridurre tutto quanto invece è vicino, locale e italiano (cioè quello che si è!) a una versione per forza (cioè aprioristicamente) sfigata e derivativa di ciò che è estero: chi è affetto da tale tipo di provincialismo pensa che bistrattando le proprie origini e prodotti alla fine riesca ad innalzarsi all’agognato livello estero (che molto spesso manco corrisponde alla realtà!) nei cui confronti è complessato, ad essere “internazionale” e non provinciale, ma ironicamente ottiene nient’altro che il suo opposto. Questo è, però, un discorso che non riguarda solo il campo musicale, bensì tutte le manifestazioni dell’italianità e se c’è una cosa che è davvero specificamente italiana è proprio, per noi, l’incappare in uno di questi due provincialismi, seppure in parte siano però purtroppo generati anche da condizioni di fatto.
Concludendo: alla fine è proprio questa gente che si lamenta del provincialismo, essendolo però all’ennesima potenza, a fare dell’Italia un paese provinciale anche in campo musicale, perché se è vero che l’Italia (anche musicalmente) è ancora indietro ad alcuni Paesi europei e all’America, altrettanto vero è che un po’ si sta riprendendo e che stanno uscendo negli ultimi anni delle belle eccezioni che non hanno nulla da invidiare ai più famosi e blasonati colleghi esteri. E che piaccia o meno questa è la verità che è sotto gli occhi di tutti.
Ovviamente e per fortuna, ci sono però anche molti critici intelligenti che non cascano negli errori summenzionati: quindi terminiamo questa domanda con una nota di ottimismo e di positività!

In “Dying In Time” è molto sensibile il contributo delle voci, che si sposano alle atmosfere e sembrano delineare quasi embrioni di canzoni: come mai questa scelta? È una strada sulla quale pensate di continuare?
Scelta non particolarmente premeditata, che è venuta un po’ così, con il procedere delle registrazioni; qualche buon contatto e la possibilità intravista di arricchire e rinnovare la tavolozza a disposizione… Usiamo le voci ancora, per lo più, quali ulteriori strumenti, quasi a mo’ di tastiere o chitarre stravolte dal delay, senza farle troppo prevalere sull’arrangiamento, in stile “shoegaze”, tanto per intenderci. Pensiamo che “l’esperimento” proseguirà anche nell’immediato futuro: abbiamo deciso di stabilizzare la collaborazione con la giapponese Linda Bjalla che in “Dying In Time” ha prestato la sua voce in svariate tracce.

Anche se le vostre non possono essere considerate vere e proprie canzoni, sembra quasi vi sia un messaggio d’insieme sotteso al nuovo disco, così come alle vostre rappresentazioni dal vivo (mi riferisco anche ai video di Sieva). A livello percettivo, sembra qualcosa tutt’altro che superficiale, che si coglie soprattutto nell'”inno” “Balding Generation”: c’è questo messaggio, e se sì qual è?
Mi piace la definizione di inno per “Balding Generation (Losing Hair As We Lose Hope)”! In effetti, un po’ lo è e, se si ascolta bene, si sente anche una voce maschile (la nostra) declamare ad alta voce (però tenuta in sottofondo) che noi siamo la generazione di quelli che assieme ai capelli perdono anche le speranze, volendo con questo sottolineare un po’ la superficialità dell’epoca dell’iconomania (come la definiva acutamente G. Anders), dove l’immagine e l’apparenza contano più del contenuto e dell’essenza. Ma parimenti nelle ulteriori strofe si conclude ottimisticamente dicendo che siamo ancora capaci di osare amare e di innamorarci nonostante la disperazione. Quindi blochianamente viene fuori il nucleo utopico positivo proprio dalla negatività disperante. Ovviamente ciò nella canzone non suona così pesantemente filosofico pur essendo però questo il messaggio. Quanto ai visuals di Sieva, si tratta di ispirazioni sue personali elaborate a posteriori e in massima libertà ascoltando però i nostri pezzi. Diciamo che tra noi è lui c’è una libera convergenza spontanea che produce alla fine un immaginario simile.

Domanda a bruciapelo: come definireste la vostra musica oggi?
Post-dance (quella per chi ha paura di ballare ma che nonostante ciò osa farlo) vs. shoegaze ambient (quella per chi è più introverso e riflessivo)! Comunque non è importante come definiamo la nostra musica, ma come la facciamo e la sentiamo. Quindi avviso a chi legge: non prendete seriamente queste etichette di comodo ma fatevi la vostra opinione che non deve però essere necessariamente etichettata…

Con “Dying In Time” avete raggiunto una definizione molto precisa del vostro stile: pensate di aver toccato il vostro massimo?
Il massimo non si raggiunge mai per definizione, però la tua notazione ha una componente di verità, almeno per come viviamo noi dall’interno il percorso artistico fatto in questi anni: con “Dying In Time” abbiamo portato, come dire, alle estreme conseguenze un po’ tutti i linguaggi che ci sono appartenuti finora… Inoltre è un album con cui ci siamo spinti anche verso nuovi territori; è quindi il nostro disco più ambizioso, complesso, lavorato, pur ritenendo però in un certo senso ogni nostro lavoro il migliore (tra loro ovviamente non in rapporto a tutta la musica!) che abbiamo mai fatto.

Immagino stiate già pensando a nuova musica e alle vostre prossime pubblicazioni: dove vanno adesso i Port-Royal?
Domanda da un milione di euro! A parte il discorso relativo a un paio di uscite di “transizione” previste nel 2010 con materiale già più o meno pronto, è, in effetti, proprio questo il periodo in cui dobbiamo iniziare a ragionare sul nuovo corso per il quarto album. Non parliamo di nuovo corso casualmente: si tratterà di individuare direzioni altre, in grado di fornirci nuovi stimoli per andare oltre i risultati cui siamo giunti con “Dying In Time”, il quale ha rappresentato, per certi versi (come si è provato a spiegare anche in questa intervista), un po’ la chiusura di un ciclo. Cercheremo, in particolare, sia un nuovo modus operandi, un diverso approccio alla registrazione, cioé sia un nuovo modo di vivere la sostanza della composizione. Ma non vogliamo neppure snaturarci e tagliare i ponti col passato. È quindi difficile. Non è possibile ora prevedere quello che sarà; si spera che tutto venga in modo istintivo, anche se in certa misura sarà necessario operare scelte di campo fatte a tavolino.

(pubblicato su ondarock.it)

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