EMILY JANE WHITE – Victorian America
(Talitres, 2009)

Nonostante sia inizialmente passato fin troppo in sordina, il suo debutto “Dark Undercoat” aveva rivelato il talento e la voce di Emily Jane White quale una delle più valide figure del nuovo cantautorato statunitense al femminile.
Oggetto di un apprezzamento tanto entusiastico quanto limitato nelle sue proporzioni, quel lavoro, pubblicato nel 2007 dalla piccola Double Negative, ha trovato tardivamente la meritata diffusione, grazie all’uscita europea nel 2008 e alla recente ristampa da parte di Important Records. In particolare la prima pare aver contribuito non poco a far conoscere la musica di Emily Jane White nel Vecchio Continente, tant’è vero che il secondo album della cantautrice californiana vede adesso la luce sul solo mercato europeo, ad opera dell’etichetta francese Talitres.

Eppure, fin dal suo titolo, il nuovo lavoro si presenta legato, in maniera ancor più sensibile del precedente, alla tradizione musicale americana, più o meno risalente, e caratterizzato da una maggiore articolazione rispetto a quelli che, per stessa ammissione dell’artista, in “Dark Undercoat” erano poco più che bozzetti di canzoni, tanto essenziali quanto deliziosi.
Nei dodici lunghi brani di “Victorian America” (un’ora di durata complessiva) Emily Jane White sembra aver rinunciato almeno in parte a quella semplice immediatezza che aveva contrassegnato il suo splendido debutto, in favore di un songwriting più denso e ragionato e di atmosfere a tratti venate di sfumature tenebrose ed evocative, che giustificano appieno l’attenzione a lei riservata, fin dall’inizio, da parte di David Tibet. Non ha rinunciato affatto, invece, a melodie sinuose e arrangiamenti ariosi, che risultano dosati con grande maturità, oltre a denotare una cura orchestrale frutto di una produzione decisamente più curata. Allo stesso modo, anche le interpretazioni della White tendono a distaccarsi lievemente dal suo naturale registro catpoweriano, intraprendendo percorsi di raffinatezze folk, fatti di accenni di vibrato e modulazioni vocali più acute e sofisticate.

Sono questi gli elementi che colorano di tinte calde e vivaci i tanti scorci di un’America remota e in qualche caso soltanto vagheggiata, racchiusi in un lavoro che scorre come un documentario (“The Country Life”), fitto della narrazione di piccole storie (la title track e la soave “Liza”) ma talvolta ancora preda del sogno, di descrizioni immaginarie nelle quali il passato viene trasfigurato con estrema sensibilità e anche spettri e demoni, piuttosto che inquiete evocazioni, sono solo ricercate evocazioni metaforiche (“Red Serpent”, “Ghost Of A Horse”). Il tutto si inserisce poi in un contesto, la cui ricchezza di soluzioni (ballate moderatamente bluesy e arrangiamenti solenni) lascia affiorare insospettabili reminiscenze appalachiane, che rivelano una propensione verso rideclinazioni dalla chiara base folk, affini ad esempio a quelle recenti di Alela Diane (in particolare nella lunga e articolata “Stairs”).
Benché anche in questi episodi le interpretazioni riescano sufficientemente convincenti, si percepisce uno sforzo di ibridazione e una certa prolissità, non del tutto congeniali allo stile compunto e al fascino austero fin qui dimostrato dall’artista californiana. Non sembra un caso, infatti, che il meglio di sé Emily Jane riesca ancora una volta a darlo quando si spoglia di abiti sonori più sofisticati per abbandonarsi alla sobrietà acustica di ballate essenziali come “A Shot Rang Out”, ai suadenti sussurri di “The Ravens” e ancor di più quando scioglie la briglia all’emozionalità delle note del suo pianoforte, nell’intensissima “Frozen Heart”.

Sono perle come quest’ultima, delle quali questo lavoro non è certo privo, a render lecito pretendere standard medi ancora più elevati da un’artista dalle capacità notevoli e dotata di una personalità sufficiente ad affrancarla dal cono d’ombra di Cat Power. In tal senso, “Victorian America” conferma tutto quanto di buono rivelato da Emily Jane White nell’album di debutto e adesso filtrato attraverso modalità espressive e realizzative fin troppo ponderate, ma fortunatamente non tali da sovrastare la freschezza e la classe di una delle poche, tra le tante nuove voci femminile, a mostrare di avere un’evidente marcia in più.

(pubblicato su ondarock.it)

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