CRAFT SPELLS – Idle Labor
(Captured Tracks, 2011)
Ultimo nome da tenere d’occhio nella temperie di recupero di sonorità anni 80, che oltreoceano monta sempre più impetuosa, è quello di una band di Seattle rispondente al nome di Craft Spells.
Dopo un paio d’anni trascorsi ad alimentare un’estetica vintage attraverso singoli e vinili 7”, è l’immancabile Captured Tracks a ospitare il debutto sulla lunga distanza del quartetto guidato dall’ispanico dalla faccia da ragazzino Justin Vallesteros.
Al pari di molte produzioni della stessa etichetta, le coordinate di “Idle Labor” sono semplici e di pronto effetto per quel gusto che ormai ha fatto breccia nei palati di gran parte dell’indie-mondo attuale: canzoni concise in fedeltà medio-bassa, tastiere polverose e atmosfere sfumate.
Così, i Craft Spells concentrano in undici brani dalla durata mai superiore ai quattro minuti un ampio campionario di ingredienti e suggestioni in precario equilibrio tra dark-wave, synth-pop e riflessi trasognati, in maniera niente affatto dissimile da quanto da ultimo offerto dai “colleghi” Wild Nothing e Minks.
In “Idle Labor” l’accento è però posto soprattutto su un suono trasandato e pulsante, i cui contorni ovattati scolorano ora in texture tenebrose in odor di Cure e New Order (“Scandinavian Crush”, “From The Morning Heat”), ora nel passo danzereccio di effimeri cocktail eighties (“Party Talk”, “After The Moment”, “Ramona”). In entrambi i casi, la nostalgia non risulta più di tanto mediata da capacità rielaborativa, stante anche il non eccelso appeal melodico di canzoni che stentano a decollare nonostante qualche timido rilancio affidato alle tastiere.
Più convincente, invece, la band risulta quando smussa i battiti sintetici in melodie fluide, dagli eterei riflessi violacei, decisamente più vicine ai Wild Nothing (“The Fog Rose High”, “Your Tomb”) e a tratti capaci di piegare il proprio impianto strumentale al servizio di vere e proprie popsong (in particolare le conclusive “You Should Close The Door” e “Beauty Above All”), nelle quali chitarre vagamente jangly dialogano con dignità pari con tastiere soffici e liquide, che meglio si sposano con la voce malinconica e fin troppo effettata di Vallesteros.
In definitiva, “Idle Labor” si colloca su una scia stilistica alquanto fortunata e di ampia diffusione in tempi recenti, pur difettando dell’efficacia necessaria per rendere riconoscibili le canzoni e il tratto di una band probabilmente ancora acerba nel riversare le proprie attenzioni al dato estetico piuttosto che a quello sostanziale della scrittura dei brani. Un ascolto, comunque, piacevole per nostalgici impenitenti e diligenti seguaci delle dinamiche musicali del momento, in attesa dell’auspicabile crescita di personalità di Justin Vallesteros e soci.
(pubblicato su ondarock.it)