HOOD – Cold House
(Domino, 2001)
Inghilterra, primi anni 2000: la transizione cronologica si manifesta con tutta la sua efficacia, palesando in maniera ancor più sensibile quell’esigenza di rimescolare modalità espressive e forme musicali, dalla quale anche nel decennio precedente la scena inglese è stata tutt’altro che aliena.
E forse nessuno meglio degli Hood dei fratelli Chris e Richard Adams poteva raccogliere la sfida del mutamento di paradigmi, tanto per sensibilità quanto per attitudine concettuale, a misurarsi con esperienze sempre nuove e diverse.
Nei quasi dieci anni di attività che precedono “Cold House”, la band di Leeds aveva già attraversato due fasi ben distinte della propria carriera, passando dall’indie-noise in bassa fedeltà dei primi lavori alla desolazione rurale del capolavoro “Rustic Houses Forlorn Valleys”, non a caso realizzato e prodotto in collaborazione con Matt Elliott, figura fondamentale dell’inquieta Bristol degli anni 90 (quella popolata tra gli altri da Amp, Crescent, Movietone e Flying Saucer Attack), nonché artista che in termini di trasformazioni e manipolazioni sonore ha poco da invidiare a chiunque altro.
Da quella stessa fisionomia splendidamente delineata in “Rustic Houses Forlorn Valleys” e consolidata nel successivo “The Cycle Of Days And Season”, trae spunto “Cold House”, quinto album degli Hood, scompaginando ancora una volta punti cardinali e rigidità di generi attraverso il deciso innesto di un’elettronica in precedenza mai cosi palese e di elementi espressivi mutuati dai nuovi linguaggi metropolitani che in quegli anni stavano vivendo i momenti più fulgidi della loro coniugazione col “rock”.
È la “terza fase” della parabola della band inglese, che passa attraverso un radicale cambio di formazione (della line-up originaria restano solo i fratelli Adams, affiancati dal batterista Stephen Royle e dal compositore-sperimentatore Gareth S. Brown all’elettronica e al pianoforte), che si manifesta in maniera disorientante già nel singolo che anticipa la pubblicazione di “Cold House”, la visionaria “You Show No Emotion At All”, brano incalzato da continui cut-up sonori e ritmi sintetici quasi ballabili, che pure contornano atmosfere invariabilmente torbide e sofferte.
Alle mille tessere del frenetico cut-up, si sovrappongono in parallelo l’alternanza e l’intreccio – incredibilmente equilibrato – del cantato serafico di Chris Adams con le declamazioni e le manipolazioni hip-hop di Dose One e Why?, che aggiungono pathos e dinamismo ai rilucenti impulsi sintetici in chiave idm dell’iniziale “They Removed All Trace That Anything Had Ever Happened Here” e ruvide timbriche urbane ai dilatati loop pianistici di “Branches Bare”.
Anche quando la loro presenza non si esplica attraverso l’elemento vocale, tracce hip-hop si trovano sparse lungo quasi tutto l’album, sotto forma di segmentazioni di tempi e cadenze e più in generale di un ardito sincretismo che su un piano pone le sonorità dei due album precedenti e sull’altro un vibrante avvicendamento di stili dall’esito straniante e continuamente mutevole.
Nel rinnovato contesto di spoglie mura cittadine, gli Hood non abbandonano tuttavia la loro poetica intrisa di memorie rimosse, rami spogli e cieli ghiacciati, né tanto meno rinunciano alle sonorità dei primi due segmenti della loro carriera, qui sottoposte a un processo di filtro e scomposizione attraverso la nuova sensibilità: non mancano, così, accenni di ritmiche soffici e dilatazioni avvolgenti (“The River Curls Around The Town”), armonie nostalgiche appena sussurrate (“Lines Low To Frozen Ground”) e persino rivisitazioni secondo melodie più strutturate della schiettezza chitarristica degli esordi (“I Can’t Find My Brittle Youth”). Il tutto è però calato in una cornice volutamente irregolare, al cui interno i deragliamenti sono sempre dietro l’angolo, ad accentuare il senso di precarietà e irrequietezza che scorre carsicamente per tutto il lavoro, affiorando in superficie sotto forma delle ricorrenti destrutturazioni dei finali e soprattutto delle penetranti asprezze dal passo jazzy di “The Winter Hit Hard”, ideale anello di congiunzione con le allucinazioni notturne dei Bark Psychosis.
L’ambiziosa e riuscitissima operazione sottesa a “Cold House” si rivela dunque non limitata alla mera riconduzione della malinconica contemplazione agreste di “Rustic Houses, Forlon Valleys” a una claustrofobica oppressione metropolitana; attraverso il fedele contrappunto della persistente profondità sintetica ad opera di una miriade di variazioni introdotte da chitarre acustiche, flauti, trombe e dalla frequente presenza del pianoforte di Gareth S. Brown, gli Hood hanno confezionato un’opera sfuggente a definizioni e inquadramenti, degnissima rappresentazione della poliedricità del nuovo decennio e al tempo stesso summa e punto di partenza di quella post-modernità musicale che proprio nell’intersezione di linguaggi diversi continuerà in seguito a trovare una delle sue principali ragion d’essere.