JOHN WHITE – Henry Green And The Island Of Tuliarts
(Monkey, 2016)
Ancora una volta non si può fare a meno di considerare come l’isolamento fisico e geografico possa fungere da premessa per produzioni musicali davvero particolari, apparentemente asincrone rispetto alle tendenze stilistiche prevalenti a livello internazionali. Ancora una volta è la Nuova Zelanda la terra d’origine di un lavoro a suo modo eccentrico per contenuto e modalità di presentazione, che proprio in una temperie artistica caratteristica affonda le proprie radici.
È il quarto album solista di John White, in passato componente di band quali Mëstar e The Blueness, partecipi della stagione di quel Dunedin Sound, appunto, propriamente neozelandese. Ed è un album che, fin dalla copertina e dalle storie fiabesche da esso narrate, proietta in un mondo fantastico, dal non dissimulato candore infantile, popolato da navigatori avventurosi, isole lontane (non a caso…), popoli immaginari, elfi e fate.
Eppure, non c’è nulla di stucchevole nei racconti di “Henry Green And The Island Of Tuliarts”, così come nei dieci brevi brani che lo compongono, nei si respira uno spirito pop genuino e (dis)incantato, veicolato da texture armoniche risultanti dalla combinazione di languori chitarristici e di arrangiamenti d’archi che amplificano l’alone di trasognata magia che ammanta la morbida vocalità di White.
Dalla combinazione di tali elementi promanano avventurose sensazioni salmastre e ambientazioni ora sognanti ora vagamente acide, che non disdegnano nemmeno spunti di romanticismo folk. Giocose e velate di sottile malinconia le dieci canzoni in venticinque minuti di “Henry Green And The Island Of Tuliarts” assumono le sembianze di cartoline sospese in un luogo immaginario, dove tempo ed età sono grandezze del tutto relative, che impallidiscono di fronte a una creatività pop lieve e sbarazzina, non meno godibile di quanto non sia, a suo modo, originale.