THE AMERICAN ANALOG SET – From Our Living Room To Yours
(Emperor Jones, 1997)
Texas, metà anni Novanta: un piano largo in dissolvenza sabbiosa, che amplifica l’indolenza desertica di una musica fuori dagli schemi e dalle scene del momento, non dal solo punto di vista geografico. Mentre ancora impazza la sporca estetica elettrica del grunge e, altrove, cominciano a germogliare le spore di post-rock e slow-core, quattro ragazzi innamorati del vecchio kraut-rock e delle tastiere analogiche (ma non solo) cominciano a fare musica, coltivando il culto minimale dell’attimo.
Già il loro nome era tutto un programma, e così il titolo del loro primo disco, “The Fun Of Watching Fireworks” (1996), le cui premesse analogiche – in fondo parallele a quelle degli Stereolab in Inghilterra – si contaminavano già con sfumature locali, dalle trasognate atmosfere del Paisley Underground a una serafica vena pop, illanguidita dalla scrittura e dalle interpretazioni codeiniche del cantante Andrew Kenny.
Proprio dai fuochi d’artificio del primo disco, in senso sia stilistico che narrativo, un anno più tardi trae le mosse “From Our Living Room To Yours”, già dal titolo nuova dichiarazione d’intenti, involontario manifesto, col senno di poi, tanto della dimensione creativa casalinga, alla quale le moderne potenzialità di registrazione aprivano orizzonti sconfinati, quanto di quella di fruizione personale, ben distante da quella collettiva di quelle adunate rock che, di fatto, da allora non torneranno mai più. Così, scegliendo per artwork lo stereotipo da cameretta per eccellenza del collezionismo filatelico, gli American Analog Set si presentavano al secondo disco: “From Our Living Room To Yours” è forse il loro lavoro più completo e rappresentativo, quello che – più ancora del debutto – dischiude un universo sonoro ricchissimo, costruito intorno all’iterazione ipnotica di due note di tastiera analogica ma denso di deviazioni e derive spesso sorprendenti.
In otto brani dalla durata media ben oltre i cinque minuti gli American Analog Set spaziano tra passato, presente e spazio futuribile, restando con le radici ben ancorate nelle proprie ascendenze kraut, tuttavia sviluppate in un caleidoscopio di suoni, stili e sensazioni. Certo, i quasi nove minuti dell’iniziale “Magnificent Seventies” suonano come una dichiarazione d’appartenenza, pure sviluppata con straordinaria leggerezza melodica e graduali variazioni che ne plasmano il sostanziale mantra in una soffice sequenza circolare. In maniera analoga, ciascuno dei brani segue una propria evoluzione, tra cadenze narcolettiche imparentate con i “rallentatori di mondo” del nascente slow-core, tastiere liquide, nastri in reverse e repentine variazioni di tempi e ingredienti.
Basti prendere ad esempio, in tal senso, brani come “Blue Chaise“, che pur regalando l’unica schietta chitarra elettrica presente nel disco avanza su una melodia indolente, “Where Have All The Good Boys Gone” con la sua colorata patina di psichedelia californiana, o lo stesso breve strumentale “Using The Hope Diamond As A Doorstop“, la cui unica nota di tastiera fiorisce in un artificio di stranianti suoni analogici, rappresentano perfette sintesi del retroterra artistico di Kenny e compagni, distillato in forme lievi e adattate all’entropia del tempo presente.
A divagazioni decise (“White House“) e anche abbastanza oscure (le due parti di “Two Way Diamond“) che incarnano l’anima acida degli American Analog Set fa infine da contraltare la conclusiva “Don’t Wake Me“, costruita su impulsi analogici cullanti e gentili narcolessie ritmiche e armoniche che funge da ulteriore manifesto di una band che condensava alla perfezione in musica il suo essere “altrove”, in senso sia fisico che artistico. E proprio i sette minuti di “Don’t Wake Me”, che davvero potrebbero ben ripetersi all’infinito, suggeriscono un’ideale invocazione, una preghiera per rimanere ancora sospesi a mezz’aria, sospinti da una musica aliena, al tempo stesso minimale e ricchissima, che univa mirabilmente ricerca, atmosfera e melodia.
Anche a distanza di ormai vent’anni, lasciateci continuare a dormire – e sognare – ancora un po’.
Un commento Aggiungi il tuo