club8_above_the_cityCLUB 8 – Above The City
(Labrador, 2013)

La questione sta diventando sostanziale: quanto ancora durerà il revivalismo (per non dire lo sdoganamento) dei suoni più plastificati ed effimeri degli anni ’80? E, soprattutto, quanto il ritorno di confezioni luccicanti e synth danzanti giova agli artisti e alle band che lo accolgono nei propri registri espressivi?
Gli interrogativi, che saranno già balenati tante volte nelle menti di ascoltatori non proprio avvezzi a quelle sonorità, tornano a materializzarsi nell’ottavo album del duo indie-pop tra i più longevi e apprezzati di Svezia, ovvero quei Club 8 di Karolina Komstedt e Johan Angergård che, invero, nel corso della loro carriera non hanno mai nascosto fascinazioni per il synth-pop e la dance di quegli anni, persino in tempi in cui l’attenzione per quei generi era ben più bassa rispetto agli ultimi anni, salvo poi discostarsene in favore di indie-pop frutto di una scrittura melodica eccelsa (“The Boy Who Couldn’t Stop Dreaming”, 2007).

Mentre già il precedente “The People’s Record” (2010) lasciava intravedere il ritorno di tastiere vintage e percussioni incalzanti, dischiudendo assolati orizzonti tropicali, “Above The City” immerge quasi completamente le canzoni del duo in un temperie sonora a metà tra robotiche progressioni electro e scatenata coralità dal passo danzante. È un tuffo senza paracadute nel passato quello dei Club 8, che si muovono con consumata disinvoltura tra reminiscenze di New Order e Abba (!), conferendo ai loro brani un taglio tanto definito da farne della forma un elemento sostanziale.

Se infatti si eccettuano le folate spaziali dell’iniziale “Kill Kill Kill”, le pulsioni baleariche di “A Small Piece Of Heaven” e il zuccheroso scheletro twee di “I’m Not Gonna Grow Old”, quasi tutto il resto di “Above The City” è plasmato da synth roboanti e ritmiche serrate, che incidono in profondità nella struttura dei brani fino a soffocarne un’essenza indie-pop, peraltro a stento capace di travalicate sovrastrutture sonore così pervasive. Sarà un caso, ma uno dei pochi lampi di classe del disco coincide con la breve “Travel”, collocata quasi in chiusura di tracklist e unico brano nel quale si riaffaccia la dolcezza sommessa della Komstedt, alimentando così ancora di più il rimpianto per la capacità della band di pennellare simili ballate di indie-pop malinconico e sognante. Ma qui si tratta davvero solo di un episodio isolato, perché anche i due brani ad esso successivi rilanciano ulteriormente su ritmiche pesanti (“Less Than Love”) e coretti anthemici che paiono fuoriusciti da una radiolina a transistor sotto il sole di un’estate di metà anni Ottanta (“Straight As An Arrow”).

Mai come in questo caso, dunque, forma e sostanza finiscono per diventare un tutt’uno inscindibile, tanto che tratti di “Above The City” risultano addirittura respingenti nella loro superficie plastificata; è senz’altro quella che i Club 8 volevano dare a questi loro nuovi brani, ma non l’unico elemento che impedisce di apprezzare un album in ogni caso non collocabile ai vertici della loro ispirazione. A scanso di equivoci, non è solo l’opzione stilistica del duo svedese a risultare discutibile, bensì un po’ tutto l’impianto di un lavoro che, posto in relazione con la pessima prova dell’ultimo dei connazionali e colleghi Mary Onettes, getta qualche ombra di perplessità sullo stato di saluto della fucina del pop scandinavo gravitante intorno all’etichetta Labrador. Un’immediata smentita non potrebbe che essere ben accetta!


http://www.club-8.org/

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