BRUNO BAVOTA – La casa sulla Luna
(Lizard, 2013)
Ormai da vari anni il neoclassicismo pianistico ha travalicato i muri delle accademie per entrare, spesso contaminato, nel lessico latamente “alternativo”. In parte esaurita la spinta propulsiva della novità, ci si trova così, spesso, di fronte a ogni nuovo lavoro riconducibile a quell’ambito, in bilico tra perplessità manieristiche e abbandoni all’emozione: decisamente verso i secondi propendono i dieci ritratti al pianoforte realizzati dal compositore napoletano Bruno Bavota e raccolti in “La casa sulla Luna”, album che ne segue a poco più di due anni di distanza il debutto “Il pozzo d’amor”.
La cifra espressiva prescelta da Bavota è quanto di più essenziale dal punto di vista esecutivo, ma al tempo stesso ricca da quello comunicativo: armonie disadorne si stagliano da subito in primo piano, rinunciando così completamente a fondali ambientali e, in buona misura, ad accompagnamenti che non siano sparuti abbracci di archi.
Allo stesso modo, le concise composizioni di Bavota tengono a distanza di sicurezza divagazioni new-age per abbandonarsi a una delicatezza impressionistica, attraverso la quale disegnano traiettorie di sogno ed emozione, che in “C’è un cinema laggiù” palesano una vocazione cinematica latente peraltro lungo tutto il corso del lavoro.
Tra delicata nostalgia (“Buongiorno, buonanotte”, “Arrivederci signora Luna”), slanci di romanticismo (l’iniziale “Amour”, quasi un trait d’union col disco precedente) e progressioni lente ma a tratti impetuose (“Il dito si muove sul vetro appannato”), i brani eseguiti in punta di dita da Bavota scorrono così in un flusso narrativo di coesa classicità, forse non impressionante per artifici compositivi, ma dotato di spiccate doti immaginifiche e, soprattutto, frutto di tanta passione.