LAURA VEIRS – Warp And Weft
(Raven Marching Band / Bella Union, 2013)
In quindici anni di onesta carriera, Laura Veirs non è mai riuscita ad assurgere in maniera prominente alle attenzioni del pubblico indipendente; forse perché poco appariscente nell’estetica e negli atteggiamenti, forse perché autrice discreta di un canzoniere fragile, personale, persino troppo delicato per poter impressionare. Eppure, nonostante qualche momento di appannamento, l’artista originaria del Colorado e ormai adottata dalla vivace Portland ha dispensato in sette album numerose gemme di una fluida spontaneità cantautorale, radicata inevitabilmente nella tradizione ma aperta come poche altre a moderne suggestioni pop-rock.
È quel che avviene anche nel nuovo “Warp And Weft”, lavoro scritto e realizzato durante la seconda gravidanza della Veirs e come tale intriso di un misto di tenerezza e apprensione tradotto in dodici canzoni dalle tinte morbidamente sfumate, anche quando le loro tenui melodie si irrobustiscono di brulicanti inserti elettrici, sincopi ritmiche e tastiere brillanti. Come già nel precedente “July Flame”, la Veirs è supportata da un’ampia band, guidata da Karl Blau al basso e comprendente Carl Broemel dei My Morning Jacket alla chitarra e il marito Tucker Martine alle percussioni; ulteriori contributi meritevoli di citazione sono quelli degli ospiti vocali KD Lang, Jim James e Neko Case, quest’ultima protagonista di un pregevole duetto nell’iniziale “Sun Song”.
Proprio la grazia acustica di questo brano – impreziosito da ariosi arrangiamenti d’archi – e di “Shape Shifter” mostra il songwriting della Veirs nella scarna forma a lei più congeniale, rinnovando la magia di bozzetti dai freschi sentori bucolici primaverili; sulla stessa falsariga si colloca poi anche il prezioso origami armonico di “Sadako Folding Cranes”, brano dedicato a una bambina sopravvissuta a Hiroshima e delicato tanto nel tema quanto nell’esecuzione.
Ma il mondo di “Warp And Weft” non è popolato solo di leggiadria irenica: le sue canzoni si rivestono infatti anche di più spigolosi accenti elettrici, come nel caso del blues di “Dorothy Of The Island”, delle calde sfumature jazzy della conclusiva “White Cherry” e dei nervosi fremiti di “That Alice”, probabilmente il brano di maggior impatto del lavoro, ma anche quello che si discosta maggiormente dalla timidezza impressionistica confacente allo stile espressivo della Veirs. Con ogni probabilità, non basterà questo a trasformare la sua dimensione artistica, né a sminuire più di tanto la classe discreta che permea la maggior parte del lavoro, nuova testimonianza delle qualità di una grande “minore”.