BD HARRINGTON – Regarding The Shortness Of Your Breath
(Travelling Music, 2013)
Con un estimatore d’eccezione quale Barzin – che in un’intervista lo segnalava tra i propri connazionali più talentuosi ancor prima che realizzasse un disco – BD Harrington si presenta con un biglietto da visita non solo lusinghiero ma anche immediatamente rappresentativo della collocazione stilistica del cantautore canadese, già al debutto sulla lunga distanza nel 2010 con “The Kid Strays”, album di scarno e ancora acerbo intimismo in medio-bassa fedeltà.
Nel periodo intercorso da primo lavoro, l’artista canadese ha affinato il suo sommesso songwriting, sviluppando il lirismo di canzoni in penombra, il cui essenziale impianto di chitarra o pianoforte è adesso accentuato dalle percussioni del co-produttore Don Kerr e da sfumati arrangiamenti di violoncello e contrabbasso. Prende così forma “Regarding The Shortness Of Your Breath”, disco intensamente sentito in quanto giunto a esito di un difficile periodo personale di Harrington (è tra l’altro dedicato alla scomparsa del padre) e registrato in pochi giorni di volontario isolamento invernale su un’isola della baia di Toronto.
La combinazione della più curata rifinitura delle dieci nuove canzoni con la profonda partecipazione emozionale di Harrington alla loro stesura produce così una rassegna di accorate riflessioni sulla sofferenza di vari generi di abbandono, sviluppate con consapevolezza umana e misurata grazia espressiva. Il lento incedere di quasi tutti i brani, solo in qualche passaggio irrobustito da lontane sfumature jazzy, accentua il raccolto intimismo di interpretazioni pervase da morbido raccoglimento e acuta riflessività. Nonostante qualche passaggio presenti contorni più decisi (il trasognato blues ridotto all’osso di “Ultramarine”, la ballata dal profumo sudista “Born Sucker”), è l’inevitabile affinità col mentore Barzin a produrre i momenti più alti del lavoro, nella narcolettica interazione di ritmiche sfumate e pianoforte di “New Skin” e “Arrows Sing”, del romanticismo decadente di “Born Sucker” e della dolente, allucinata confessione sulle cadenze sospese di “Mariella”.
Lungo un po’ tutto il disco si percepisce comunque uno spirito e una sensibilità nel raccontarsi in canzoni di fluida intensità che fa assurgere BD Harrington a nuovo credibile rappresentante di quell’understatement cantautorale che trova la propria dimensione ideale nella penombra avvolgente di canzoni ovattate, cantate quasi sottovoce.