BLACK HEARTED BROTHER – Stars Are Our Home
(Sonic Cathedral, 2013)
No, non sono tornati gli anni Novanta. E nemmeno potrebbe dirsi che l’idea sottostante a Black Hearted Brother sia animata da semplice spirito nostalgico, nonostante faccia un certo effetto ritrovare Neil Halstead, dopo tanti anni dedicati al folk, alle prese con chitarre, distorsori e viaggi cosmici sulle ali di roboanti evanescenze. Black Hearted Brother sono ben distanti da una pallida rievocazione del periodo Slowdive, se non altro per i compagni di viaggio di Halstead, Mark Van Hoen (Seefeel, Locust) e Nick Holton (Holton’s Opulent Oog, Coley Park).
Decisamente virato alla psichedelia piuttosto che a nostalgie shoegaze, “Stars Are Our Home” è un disco a tutti gli effetti frutto di estemporanei lussi di coscienza, testimoniati anche dalla volontà dei tre artisti di tagliare e rilavorare quanto meno possibile in studio i brani registrati in presa quasi diretta. Lo si percepisce subito constatando la durata complessiva superiore all’ora (un po’ prolissa, rapportata a una tracklist di dodici brani) e imbarcandosi sull’immaginaria navicella spaziale costruita dal trio, a partire dalla lisergica title track strumentale d’apertura.
Se proprio per “Stars Are Our Home” si volesse cercare un termine di paragone negli anni ’90, sarebbe da individuare piuttosto nei primi Spiritualized e in quella miscela di chitarre effettate, tastiere e pulviscolo cosmico analogico che sostenevano le prime melodie guidate dal laser. A fronte di un paio di più corpose torsioni di feedback (“(I Don’t Mean To) Wonder”, “My Baby Just Sailed Away”, “Oh Crust”), il lavoro si assesta a velocità di crociera cosmica tra riverberi policromi e cadenze ipnotiche (“If I Was Here To Change Your Mind”) e un brillante spirito armonico che pare rivestire le delizie bucoliche dell’Halstead dei Mojave 3 e di quello solista di una patina psyched-out in fondo lieve e godibile.
Un distante spirito pop affiora infatti qua e là, a ingentilire i muri chitarristici di una “UFO” o lo straniante caleidoscopio di “Time In The Machine”. Man mano che la navigazione lungo le dodici tracce del disco procede, affiora con maggior decisione la componente melodica di Halstead, apprezzabile in delicati cammei sottoposti soltanto a un filtro leggermente acido quali “Take Heart” e “Look Out Here They Come”. La trasvolata stellare si conclude dunque con un ritorno alla concretezza terrena, che suggella l’intera operazione Black Hearted Brother quale compiuta e divertita divagazione di tre artisti di estrazione diversa, che senza troppe pretese intellettualistiche (e volutamente anche senza troppo lavoro di cesello) hanno regalato un po’ della loro creatività a un progetto comunque stimolante per la sua eterogeneità.