the_rg_morrison_diamond_valleyTHE R.G. MORRISON – Diamond Valley
(Static Caravan, 2013)

Il profilo di Rupert Graeme Morrison è decisamente quello di un outsider, se anche lo si voglia rapportare al brulicante sottobosco folk britannico, dal quale ormai sovente qualche proposta affiora a una dimensione indipendente più ampia. Morrison è invece un tranquillo artista di provincia, che cura il suo negozio di dischi nel Devon e, di tanto in tanto, scrive canzoni che suona con un gruppo variabile di amici.

La sua band in nome collettivo, The R.G. Morrison, torna così a manifestarsi a intervalli irregolari e comunque piuttosto dilatati, visto che “Diamond Valley” ne rappresenta la terza testimonianza in quasi dieci anni, a oltre tre dalla precedente “Farewell, My Lovely”.
Improntato a una sorta di concept sulle alterne vicende umane di perdita e delusione, ma anche di grazia salvifica, ed effigiato in copertina niente meno che da un dipinto di William Turner (“La quinta piaga d’Egitto”), “Diamond Valley” si atteggia quale lavoro tipicamente inglese, svolto con naturale understament e sensibilità di scrittura e arrangiamento.

Eppure, proprio l’iniziale title track si discosta dal piglio generalmente sfumato e riflessivo del lavoro, spiazzando con chitarre fragorose e ritmiche asciutte. Si capisce tuttavia ben presto di non essere in presenza di una transizione rock del tranquillo cantautore inglese, che invece, con poche eccezioni (la torsione esulcerata, quasi rabbiosa, di “Slumber”), eccelle nella creazione di scarne ballate in penombra. La calda voce di Morrison narra così storie di ordinaria vita quotidiana con semplicità disarmante, rifinendo il classico folk di base di un alone romantico (“Save A Little Fear”, “Love Saved The Nineties”) e persino di sinuose sfumature sognanti (“Dreaming”, “Weary”).

Oltre il piglio introspettivo, in “Diamond Valley” vi sono tuttavia una consapevolezza e una serenità preziose, non facilmente ravvisabili in scritture musicali animate invece dal desiderio di colpire con effetti speciali. Probabilmente non c’è niente di più lontano dall’estetica indie del realismo del desiderio di un matrimonio in una chiesa bianca espresso in “White Church”, ma questo è il piccolo mondo di Rupert Graeme Morrison, del quale dai suoi racconti è dato cogliere tutta la sua genuina spontaneità.

http://thergmorrison.com/

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