tamas_wells_on_the_volatility_of_the_mindTAMAS WELLS – On The Volatility Of The Mind
(Popboomerang / Lirico, 2014)

Visto che l’occasione per parlare di lui coincide solo con il suo quinto album in studio, la storia di Tamas Wells merita di essere raccontata. Originario di Melbourne, dopo la pubblicazione del debutto “A Mark On The Pane” (2004) si è trasferito in Myanmar per motivi connessi alla sua attività lavorativa in un’organizzazione internazionale. Da lì, ha continuato a coltivare il suo cantautorato timido e delicato, regalando altri tre piccoli gioielli di sensibilità e grazia melodica (“A Plea En Vendredi” – 2006 – “Two Years In April” – 2008 – e “Thirty People Away” – 2010 – tutti consigliatissimi), che gli hanno assicurato un discreto seguito in Giappone e nel sud-est asiatico, ma che altrove sono rimasti appannaggio di pochi cultori dell’essenziale candore acustico delle sue canzoni.

Per il nuovo “On The Volatility Of The Mind”, Tamas Wells è invece tornato in Australia, dove non solo ha ritrovato luoghi e affetti familiari ma si è anche casualmente imbattuto in una strumentazione di fatto inedita, per lui che finora si era espresso con la semplice schiettezza della chitarra acustica e del pianoforte. È invece stato sufficiente ritrovare nella casa dei genitori un vecchio synth analogico e una chitarra lasciata lì da un amico per rivestire di nuovi contorni la sua musica. L’ulteriore dato della produzione per la prima volta affidata a Nick Huggins potrebbe far pensare a un cambio di rotta per il cantautore australiano, invece al parziale mutare del contesto non corrisponde alcuna significativa deviazione dal piglio lieve ed estatico delle canzoni di Tamas Wells, che nell’occasione hanno visto ridimensionati i loro accenti bucolici ma non il romanticismo melodico di fondo, adesso veicolato anche da sfumature jangly e sognanti derive di tastiere comunque sempre molto misurate.

Negli undici brani del disco permangono infatti i tratti distintivi di Wells, il suo cantato sempre soffuso e i toni smorzati, variamente applicati a riflessioni sulla labilità della memoria e a scorci di luoghi e ricordi ritrovati. Scorrevoli melodie pop (il fischiettio apparentemente noncurante dell’iniziale “A Riddle”, il passo svelto della seguente “Never Going To Read Your Mind”, le cadenze beatlesiane di “The Treason At Henderson’s Pier”) sono così supportate da brillanti impulsi di synth o da chitarre languide, benché non manchino istantanee di intimismo delicato e umbratile (“Bandages On The Lawn”, “A Servant Of The Crown” e la notturna conclusione al pianoforte “I Left That Ring On Draper Street”), declinato secondo tonalità sempre più evanescenti. Su questo ha influito senz’altro il rinnovato contesto realizzativo, che ben si è attagliato all’abituale leggerezza espressiva di Wells, conferendo spesso ai brani contorni para-ambientali, che sfociano nelle due parti dello strumentale “Benedict Island”.

Seppure nella sua interezza “On The Volatility Of The Mind” può non essere l’album più ispirato di Tamas Wells, anche nei suoi solchi l’artista australiano ha racchiuso un fedele diario delle sue emozioni, quasi sussurrate nella penombra con una pacatezza limpida, spontanea e sommessa, tutta da scoprire per chi ancora ne fosse stato affascinato.

http://www.tamaswells.com/

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