memories: GOO

sonic_youth_gooSONIC YOUTH – Goo
(Geffen, 1990)

C’era un tempo, che sembra ormai preistorico, in cui si poteva stare svegli fino a sera tarda o nel cuore della notte per assorbire i suoni e le informazioni veicolate da trasmissioni radiofoniche più o meno sotterranea, ma alimentate da un livello di conoscenza all’epoca non accessibile a un comune appassionato, soprattutto se si trattava di un fresco adolescente che con la curiosità connaturata all’età cominciava a scoprire quanto ricco e stimolante fosse il mondo musicale ai margini dei circuiti di diffusione mainstream.

Era il 1990 e poteva capitare che quell’adolescente si imbattesse nel giro di basso di “Dirty Boots”, magari ignorando che si trattasse di una sorta di marchio di fabbrica già consolidato e senza essere ancora in possesso degli strumenti necessari per decriptare il simbolismo sotteso anche solo ai primi due versi del testo: “Here we go to another candle I know/ All the girls there playin’ on a jelly roll”. Quel giro di basso sinuoso, le percussioni asciutte, la densa evanescenza di un feedback inusitato e il cantato al tempo stesso incalzante e indolente di Thurston Moore erano più che sufficienti, da soli, ad aprire un mondo, quello di una band nata nel post-punk newyorkese sotto la stessa di destrutturazioni rumorose ma innervata da una linfa visionaria e da una – tanto semplice quanto per certi versi incredibile – propensione alla scrittura di canzoni “rock”, che proprio in quegli anni stava per farla assurgere a una dimensione in parte diversa da quella coltivata nei primi, spasmodici anni di attività e quanto meno decantata nei due precedenti album “Sister” e “Daydream Nation”. Per quei due dischi e per gran parte di quanto prodotto dai Sonic Youth lungo tutto il corso degli anni ’80 e ’90, il termine capolavoro diventerebbe rapidamente inflazionato; “Goo” è invece tra gli album per i quali quel termine viene usato più di rado, ma forse anche proprio per questo, oltre che per l’effetto di quel giro di basso su quell’adolescente, vale la pena ricordarlo.

C’è però almeno un altro motivo, consistente nella sua collocazione di “ponte” tra due fasi della carriera dei Sonic Youth, dopo il monolitico “Daydream Nation” (1988) e prima di quel “Dirty” (1992) che per semplice coincidenza temporale era stato persino associato al calderone grunge e che comunque, anche per quello, aveva proiettato la band su una dimensione ancora più ampia di quella, pur ragguardevole, fino ad allora conseguita.

In “Goo” si ritrovano tutti gli spigoli, tutte le taglienti dissonanze e le schegge di rumore bianco delle nervose decostruzioni post-punk degli esordi, unite a uno sviluppo sempre più coeso e compiuto di un songwriting rock in grado di far convivere la melodia con la sperimentazione di un suono denso, dinamico, avvincente. “Goo” è, per certi versi, “l’album pop” dei Sonic Youth, almeno fino a quel momento; il primo per un’etichetta che all’epoca andava per la maggiore, la Geffen, nel quale viene plasticamente dimostrato come gli aspetti comunicativi di canzoni propriamente dette possano coniugarsi con straordinaria naturalezza con un intento provocatorio e decostruzionista. “Dirty Boots”, in questo senso può fungere da perfetto manifesto estetico dello stadio evolutivo dei Sonic Youth di quel periodo e un po’ di tutta quell’America “sporca” e alternativa, ben distante dalla cultura reaganiana degli anni immediatamente precedenti e pronta a rideclinare in maniera inedita e impressionante i linguaggi “on the road” di due decenni prima: “Time to take a ride, time to take it in a midnight eye/ And if you wanna go, get on below/ Pinking out the day, dreaming out the crazy way/ Finger on the love, it’s all above”.

Oltre a un lucidissimo vagabondare sulle highway, in “Goo” c’è il gioco della seduzione attraverso la sensualità di Kim Gordon, angosciosa in “Tunic (Song For Karen)” e provocatoriamente ostentata in “Kool Thing”, l’allucinazione destrutturata di “Mildred Pierce”, il noise acido di “Titanium Expose” e quello post-industriale di “Scooter + Jinx”, con tanto di vero e proprio rombo di motorino. Ma ci sono, soprattutto, prove di come il caleidoscopio “sonico” della band newyorkese comprendesse un lirismo sconosciuto a qualsiasi sperimentatore noise contemporaneo (e successivo), associato a pressoché ogni camaleontica trasformazione nel corso dell’album ed esaltato in tutte le sue potenzialità immaginifiche nei viaggi acidi e travolgenti, ma estremamente fluidi dal punto di vista melodico di “Disappearer” e “Mote” (quest’ultima scritta e cantata da Lee Ranaldo), tra le “ballate” più visionarie e avvolgenti dell’intera discografia dei Sonic Youth, per quanto non così diffusamente riconosciute come tali.

Lo stesso “Goo” non è, in linea di massima, tra gli album più considerati della produzione della band, pur rappresentandone un importante punto di snodo, ma quel giro di basso e quelle notti insonni costituiscono tutt’oggi patrimonio sufficiente e condiviso di pionieristici esploratori di un mondo musicale, cresciuti non solo musicalmente “a pane e Sonic Youth”.

http://www.sonicyouth.com/

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