MAXIMILIAN HECKER – Spellbound Scenes Of My Cure
(Eat The Beat, 2015)
Quasi a suggellare la sua biografia di artista globetrotter, che ha trovato una popolarità su vasta scala in Estremo Oriente, l’ottavo album di Maximilian Hecker, che segue di tre anni il precedente “Mirage Of Bliss“, reca nelle storie e nei titoli dei brani tracce della dimensione umana, spirituale e creativa da lui conseguita in quei Paesi popolosi ma apparentemente marginali rispetto ai canali musicali in grado di segnare le tendenze “occidentali”.
C’è l’ode alla bellezza cinese Liu Wien, ci sono le luci di Aoyama e gli sguardi malinconici e sottilmente ironici di “Gangnam Misery”, ma anche cartoline dal “Battery Park” di Manhattan, tra le suggestioni che hanno presieduto alle dieci ballate di “Spellbound Scenes Of My Cure”, che vedono l’artista tedesco incarnare ormai con naturalezza il ruolo, inaspettato, di popstar. Il pianoforte e l’accentuato lirismo del suo alto timbro vocale continuano a costituire gli elementi essenziali delle canzoni del songwriter tedesco, il cui elegante romanticismo indulge talora in eccessi di melassa, tuttavia nell’occasione temperati da una grana sonora nella quale riaffiorano arpeggi acustici (“Partyworld”), torsioni elettriche insospettabilmente roboanti (“Kennigsdorf”) e un’apertura orchestrale (la conclusiva “Kastrup”) che incorona Hecker a interprete da grandi platee.
In filigrana tra magniloquenza patinata e un lirismo talora ostentato, in “Spellbound Scenes Of My Cure” si coglie ancora qualche spunto di raccolta emozionalità (“Pearly River Gates”, “Aoyama’s Glow”), che rimanda all’originaria essenza romantica dell’artista tedesco, consolidata star di mercati ai quali le sue canzoni si rivolgono ormai in via sostanzialmente esclusiva.