SUFJAN STEVENS – Carrie & Lowell
(Asthmatic Kitty, 2015)*
“Spirit of my silence I can hear you
but I’m afraid to be near you
and I don’t know where to begin”
La sommessa invocazione che apre “Carrie & Lowell” suona come una confessione già emblematica del contenuto del settimo album propriamente detto di Sufjan Stevens. Sono trascorsi cinque anni dallo spiazzante “The Age Of Adz” e, ancora una volta, è completamente mutato l’orizzonte espressivo del geniale artista originario del Michigan e ormai newyorkese d’adozione: non più narrazioni enciclopediche né visionari mondi sci-fi presiedono alle undici coese canzoni dell’album, che affonda la sua stessa ragion d’essere nelle pieghe più intime della biografia personale dell’ormai quarantenne songwriter.
Carrie era la madre di Stevens, Lowell ne è il patrigno che l’ha introdotto alla produzione musicale; al di là della distanza che ne ha caratterizzato il problematico rapporto per tutto il corso della sua vita, la recente scomparsa della madre ha colpito nel profondo Stevens, tanto da indurlo a spogliarsi delle sgargianti vesti del lavoro precedente per rifugiarsi nell’essenza più privata di fotografie sbiadite e lontani ricordi familiari, rivelatori di vulnerabilità che ne hanno certamente plasmato la sensibilità.
La delicatezza della vicenda richiederebbe una trattazione a parte, fornita dallo stesso Stevens – si veda, in particolare questa dettagliata intervista – e riassunta nella fragile poetica di canzoni incredibilmente sentite. La loro traduzione in musica non poteva che essere priva di ogni contenuto ritmico, orchestrale ed elettronico, ridotta all’essenziale di un picking acustico cristallino o di sobrie cadenze pianistiche e di interpretazioni misuratissime, quasi sottovoce.
In questo senso, “Carrie & Lowell” si colloca in linea di diretta discendenza dell’”album folk” di Sufjan Stevens, “Seven Swans” (2004), del quale riecheggia anche in parte le tematiche religiose attraverso inevitabili richiami alla trascendenza. Inoltre, il lavoro reca con sé una partecipazione emotiva ineguagliabile, scaturita da un’elaborazione profondamente umana, evocativa di un senso di intima serenità, legato all’intima consapevolezza di un imperituro legame di sangue (termine che peraltro ricorre più di una volta nei testi) piuttosto che ai rimpianti di una cupa desolazione, che pure tende ad affacciarsi (“the only thing that keeps me from driving this car/ half light jacknife into the canyon at night/ […] do I care if I suvive this/ bury the dead where they’re found”).
La natura estremamente scarna delle soluzioni strumentali e la sostanziale concisione dei brani smentiscono senz’altro la magniloquenza spesso connaturata alle opere di Stevens, eppure non ne contraddicono del tutto la vocazione “orchestrale”, qui tuttavia resa nella ridotta scala di arrangiamenti misuratissimi e di brevi accenni di una ricorrente coralità tra sacro e profano, che insieme a ovattate risonanze alimenta il carattere moderatamente elegiaco del lavoro.
Così, attraverso i danzanti arpeggi acustici di “Should Have Known Better”, la toccante austerità del pianoforte di “Fourth Of July”, la leggerezza fatata della title track e la minimale orchestralità di “The Only Thing” scorrono istantanee di un passato spesso doloroso, riaffiorante dalla polvere della memoria, e constatazioni attuali sulla natura umana e spirituale che rivelano una profondità di pensiero ed emozione enfatizzata dall’alone di etereo raccoglimento ricorrente nelle cornici e nelle brevi code atmosferiche nelle quali svaporano molti dei brani, al tempo stesso lievi e straordinariamente intensi.
Un album così denso di sentimento non necessita ulteriori di parole; a descrivere le note e i versi di “Carrie & Lowell” è sufficiente l’ascolto delle sue canzoni e soprattutto la commozione e i brividi che a qualsiasi essere dotato della capacità di provare emozione inevitabilmente ne conseguiranno.
*disco della settimana dal 30 marzo al 5 aprile 2015