HANGING UP THE MOON – Immaterial
(Kitchen, 2015)
Il percorso di Sean Lam è decisamente particolare, anche in un mondo musicale sconfinato come quello odierno, non solo per la sua provenienza inedita ma soprattutto per il curioso processo che l’ha condotto prima a spogliarsi di un retroterra indie-rock per accedere a una scarna dimensione di cantautorato acustico da provare poi ad arricchire nuovamente, in una direzione ben diversa rispetto al suo passato.
L’artista di Singapore, al terzo album sotto la denominazione Hanging Up The Moon, non rinuncia affatto a timbri delicati né all’alone di dolce malinconia che circonda le sue canzoni, bensì le rifinisce con stratificazioni vocali e arrangiamenti d’archi che vi donano un’aura di eleganza decadente, dal sapore vagamente retrò. Nell’operazione, Lam fa uscire il progetto Hanging Up The Moon dal suo guscio solitario, grazie alla stabile collaborazione con Alexius Cai (alias Piblokto) e soprattutto a un approccio più strutturato alla composizione.
Il fulcro dei dieci brani di “Immaterial”, che segue di due anni il pregevole “The Biggest Lie In The World” continua ad attestarsi intorno al suo morbido timbro vocale e a un aggraziato picking acustico, nell’occasione di volta in volta rivestito di una pluralità di accenti, che nel corso della tracklist seguono un misurato percorso incrementale, spaziando dall’incantata semplicità pop di “The Divers” e dai florilegi romantici di “Ebb And Flow” ai toni trasognati di “Indie Movie” e persino al (fin troppo) robusto finale elettrico di “Knell”. Nel mezzo, c’è tutto il piglio gentile dell’artista asiatico, che dimostra di padroneggiare con grande dimestichezza linguaggi espressivi diversi e complementari, coniugando la semplicità bucolica dell’iniziale “Brave New World” e i toni confidenziali di “Unconditional” con rinnovate suggestioni cinematico-orchestrali e, in generale, con una ritrovata propensione a soluzioni sonore più varie e articolate.
In “Immaterial”, tutto ciò non va a scapito della scorrevole immediatezza delle melodie, che nel nuovo contesto trovano anzi un arricchimento coerente con la loro cristallina semplicità, non meno preziosa per il solo fatto di continuare a restare distante – non solo per motivi geografici – dai radar del folk-pop internazionale più in auge.