LONE WOLF – Lodge
(SNWF, 2015)
Sempre più solitario e dalle orme difficilmente perscrutabili, il “lupo” Paul Marshall giunge alla terza tappa del suo percorso artistico contraddistinto dall’alias Lone Wolf. Come già “The Lovers” (2012) segnava un significativo mutamento all’insegna di tastiere e pulsazioni sintetiche rispetto al sommesso debutto “The Devil & I” (2010), così “Lodge” rappresenta una parziale inversione della tendenza intrapresa nel predecessore, con un deciso ritorno a una dimensione acustica, benché declinata in maniera diversa rispetto all’essenzialità del primo disco a nome Lone Wolf e dell’unico pubblicato sotto il nome proprio di Marshall nel 2007 (l’altrettanto splendido “Vultures”).
Quel che appare subito evidente negli undici brani di “Lodge” è l’abbandono della patina elettronica della quale le canzoni di Marshall, che tornano a essere impostate quasi esclusivamente sul pianoforte, salvo poi aprirsi gradualmente a un ampio ventaglio di soluzioni d’arrangiamento. Il nuovo cambio di registro è suggellato fin dall’intro “Wilderness”, due minuti scanditi da note notturne, una concisa scheggia armonica e un inserto di fiati appena accennato: Marshall riabbraccia dunque una dimensione acustica, ma senza ripiegare in toto sul minimalismo di melodie e voce, anzi traendo dalle sue esperienze più recenti gli spunti necessari per rifinire le sue canzoni di arrangiamenti dal sapore a volte piuttosto particolare ma incardinati su una linea di bilanciamento tra sfumate timbriche jazzy e moderate aperture in crescendo. Le prime ricorrono in particolare sotto forma di cammei di sax (“Alligator”, “Pripyat”) e cadenze vellutate (“Taking Steps”), che lambiscono sentori vagamente esotici (“Give Up”).
L’essenza del lavoro si attesta comunque tutta intorno al pronunciato lirismo di Marshall, che accede sovente a tonalità elevate come non mai, riuscendo a rivestirsi al meglio di coinvolgente pathos proprio nelle ballate pianistiche più essenziali (“Mess”, “Art Of Letting Go”) e nei passaggi nei quali un’equilibrata tavolozza orchestrale sostiene interpretazioni al tempo stesso dinamiche e romantiche (“Crimes”).
Seppur sospeso tra la ritrovata immediatezza di una scrittura disadorna e il perdurante desiderio di conferirvi forme originali, Paul Marshall prosegue la sua solitaria ricerca di un modo diverso di veicolare le proprie canzoni, un modo che in “Lodge” trova una combinazione di sicuro interesse, non sempre immediata ma più che sufficiente, almeno a tratti, per continuare a far trasparire la capacità dell’artista inglese di parlare al cuore con coinvolgimento autentico.