LONE WOLF – The Lovers
(It Never Rains, 2012)
Non si può certo dire che Paul Marshall abbia paura dei cambiamenti; prima quello nella denominazione, che nel 2010 gli aveva fatto adottare l’alias Lone Wolf per l’oscuro romanticismo dello splendido “The Devil & I”, poi quello discografico, con l’abbandono della Bella Union e il correlativo ritorno a una dimensione di autoproduzione e infine quello, più importante, nelle vesti sonore delle sue canzoni.
Il nuovo album “The Lovers”, prodotto in collaborazione con Jon Fulger e con l’ex !Forward Russia! Tom Woodhead, segna infatti una significativa deviazione rispetto al riflessivo e intenso songwriting manifestato dall’artista inglese in “The Devil & I” e ancor più nel precedente “Vultures”, disco di sommesso cantautorato Drake-iano, realizzato nel 2007.
Il mutamento, a un primo ascolto, può risultare spiazzante, almeno per chi delle canzoni di Marshall aveva apprezzato l’essenzialità sentita e priva di sovrastrutture produttive; fin dall’inizio, infatti, la vibrante espressività delle sue interpretazioni non è più sorretta da ovattate armonie acustiche o note di pianoforte, bensì si adagia su tappeti di tastiere e pulsazioni a tratti piuttosto robuste.
Eppure, da un lato, depurate dal loro fondale tuttavia non eccessivamente invasivo, le canzoni di “The Lovers” rivelano intatto l’intensa scrittura emozionale di Marshall, dall’altro, con l’incedere della tracklist la patina sintetica tende a ritrarsi a semplice contorno di un immutato lirismo, adesso applicato a un contesto in apparenza più vivace.
Certo, alla luce della precedente collocazione di Marshall in territori prossimi al folk, sarebbe stato impossibile immaginarlo alle prese col synth-pop romantico di “Spies In My Heart”, con gli uptempo pulsanti di “Ghosts Of Holloway” e addirittura nei coretti in falsetto di “Good Life”. Ma, per un artista sensibile, aduso alla creazione solitaria ancorché adesso supportata da una vera e propria band, non si tratta tanto dell’adesione a coordinate stilistiche oggetto di recenti riscoperte quanto piuttosto di omaggi all’affine spirito decadente e oscuro di esperienze che vanno dai New Order ai Japan, passando per i Cure, esplicitamente richiamati con l’accenno di “Lullaby” eseguito nell’incipit di “Butterfly”.
Appena al di sotto della superficie, ecco riaffiorare la classe cantautorale di Marshall nelle fluide melodie di “The Swan Of Meander” e in particolare nella parte conclusiva del disco, nella quale gli impulsi elettronici si limitano a corollario atmosferico della title track o a esili scintille che incorniciano “Needles And Threads”, brano che non avrebbe di certo sfigurato nelle sue opere precedenti.
Dunque anche in questa veste rinnovata, seppur a tratti fin troppo sgargiante, Paul Marshall offre buoni spunti per farsi apprezzare, dimostrando come la sostanza di una scrittura decisa e ormai riconoscibile possa travalicare in maniera credibile persino significative trasformazioni formali nel suono.
Non è escluso che i seguaci del cantautorato acustico possano storcere il naso, almeno al primo, disorientante impatto, mentre paradossalmente proprio un album come “The Lovers”, autoprodotto e in parte finanziato dai fan, potrebbe aprire a Marshall l’accesso a più ampie platee di ascoltatori.