BUILDING INSTRUMENT – Kem Som Kan Å Leve
(Hubro, 2016)
Non potrebbe esserci immagine più calzante del “Collage” che apre “Kem Som Kan Å Leve”, secondo lavoro dei Building Instrument, a riassumere la pratica artista del terzetto norvegese: lo si comprende dai primi arcani segnali elettro-acustici e dai fremiti ritmici che in quel brano avvolgono la vocalità alta ed evocativa della cantante e polistrumentista Mari Kvien Brunvoll e lo confermeranno, circa mezz’ora più tardi i successivi cinque che ne rendono la scaletta un ininterrotto itinerario di scoperta di inusitati linguaggi sonori. “Kem Som Kan Å Leve” è infatti un disco più difficile da inquadrare di quanto non sia la corretta pronuncia del suo titolo, frutto com’è di un’ininterrotta sovrapposizione e ricombinazione di tessere sonore tanto eterogenee da apparire incompatibili con la possibilità di ricavarne fluidi incastri armonici.
Invece, la combinazione tra strati di synth, effetti elettronici e percussioni intorno alla quale gravitano le eteree interpretazioni della Brunvoll si rivela ben presto materia non solo atta a sostenere un impianto melodico ma anche a conferirvi dinamiche pulsanti ma non per questo invasive.
Il cantato sibilato tipicamente nordico della Brunvoll aleggia infatti incorporeo su un’avviluppante coltre sintetica, scandita da pulsazioni e asciutte ritmiche jazzy e rifinita da inconsueti intarsi acustici dai vaghi rimandi etnici (zither, kazoo). Assumono così forma volutamente indefinita canzoni sospese tra terra e spazio infinito, che uniscono trip-hop scarnificato (“Rett Ned”) e derive retro-futuriste (“Fall”, “Farge Tia Sakte”) sempre più sognanti e dilatate (“Like God A Leve”), fino a diventare pura essenza di un’angelica ambience vocale (“Taket”).
Nel breve lasso di poco più di mezz’ora, “Kem Som Kan Å Leve” scompagina dunque con grande naturalezza coordinate di luogo tempo e categorie stilistiche, suggerendo orizzonti di un altrove nel quale ricerca melodia e ricerca sonora convivono in una stimolante varietà di equilibri.