THE AUTEURS – New Wave
(Hut, 1993)
Anche se ormai può suonare come se fosse ere geologiche fa, c’è stato un periodo in cui i negozi di dischi erano come piccoli templi dove appassionati curiosi di nuove scoperte musicali passavano ore a scartabellare vaschette di dischi o copertine di cd; in quello stesso periodo, più o meno all’inizio degli anni Novanta, il grande rinnovamento e rimescolamento di generi in corso aveva portato la necessità di categorizzazione adottata da alcuni di quei negozi a sussumere gran parte delle produzioni provenienti dal pullulante underground artistico su entrambi i lati dell’Atlantico sotto una definizione generica che, invece, era stata in auge con un significato più specifico pochi anni prima: new wave.
Tale premessa è d’obbligo per comprendere la portata dell’atteggiamento di una band che proprio in quel periodo scelse di intitolare il proprio album di debutto “New Wave”. Emblematico anche il nome e l’iconografia prescelta da quella band, che gravitava intorno alla spiccata personalità del suo leader e songwriter Luke Haines. Erano gli Auteurs, quintetto inglese che dopo un paio di singoli di successo esordiva sulla lunga distanza nel 1993, un po’ sulla scia della breve stagione di quel pop raffinato e decadente, che nella considerazione generale vedeva quali capifila i Suede di Brett Anderson e Bernard Butler.
The Auteurs mantenevano tuttavia un atteggiamento meno provocatorio e appariscente: niente trucchi, polemiche ad alimentare la curiosità pettegola della stampa inglese, eppure non per questo minore cura nell’estetica né nella ricercatezza della poetica, degli arrangiamenti e dello stesso modo di presentare i propri dischi. All’estetica seppiata, esoticamente austera, di “New Wave” corrispondevano infatti dodici canzoni pop intrise appunto di distanti sentori wave, ma soprattutto dai languori elettrici, ad esempio, dei Go-Betweens, non a caso esplicitamente citati accanto a Grant McLennan quali fonte di ispirazione da parte di Haines.
Troppo tardi per il guitar-pop di fine anni Ottanta, troppo presto – e, soprattutto, troppo raffinati – per essere inclusi nel montante calderone “brit-pop”, in “New Wave” gli Auters inanellano una sequenza di brani al tempo scorrevoli e intensi, tipicamente “british” nella loro eleganza decadente, eppure capaci di spaziare da episodi dalla grana elettrica più densa e immediata (su tutti “Don’t Trust the Stars” e “Early Years”) a scorci di intimismo romantico completati da arrangiamenti di violoncello, per l’epoca abbastanza sorprendenti (“Bailed Out”, “Junk Shop Clothes”). Le velleità arty e letterarie di alcuni testi di Haines ne giustificano solo in parte il ricorrente paragone con i Suede, senz’altro alimentato dal singolo “How Could I Be Wrong”, in quanto ben più corposo è il suono di brani che uniscono con leggerezza Go-Betweens e coevi Teenage Fanclub, con un occhio disincantato a quello che nel frattempo stava succedendo in America (“American Guitars” ha contenuto niente affatto ironico, né dialettico).
È tuttavia ancora nelle ballate più malinconiche e umbratili, ma non per questo lente o affatto dimesse, (“Valet Parking”, “Starstruck”) che si manifesta al meglio la suadente vena cantautorale di Haines, artista dalla personalità ricercata e ricca di sfumature, la cui combinazione di vivacità e romanticismo ha travalicato tempi e mode, restando ancora oggi testimonianza di una stagione ormai lontana, eppure il cui ricordo è ancora presente con le sue agrodolci carezze pop d’autore.