HILARY WOODS – Birthmarks
(Sacred Bones, 2020)
Protagonista di un debutto dal fascino etereo ed oscuro (“Colt”, 2018), Hilary Woods vi dà seguito con un lavoro concepito nei due anni intercorsi dalla pubblicazione del predecessore, nel corso dei quali ha attraversato le esperienze della gravidanza e della maternità. Proprio al tema della nascita è dedicato, fin dal titolo “Birthmarks”, realizzato tra la sua Irlanda e la Norvegia, dove ha lavorato insieme al produttore Lasse Marhaug, prevalentemente impegnato nella scena noise e sperimentale.
Unite queste premesse alla già inquieta personalità dall’artista irlandese, l’interpretazione della nascita che ne risulta non poteva che essere ben distante da un immaginario di sola gioia e dolcezza. Tutt’altro si manifesta infatti con immediatezza negli otto brani che formano il lavoro, improntati piuttosto ai momenti più traumatici del venire al mondo e al confronto quotidiano con una dimensione fisica e psicologica in mutazione incessante. Di questo racconta infatti essenzialmente “Birthmarks”, attraverso una serie di paesaggi sonori tenebrosi, percorsi da densa tensione atmosferica e, a tratti, sferzati da aspre correnti elettricità statica e da rumorose pulsazioni sintetiche, che in particolare nella seconda metà dell’album disegnano scenari claustrofobici.
In questi passaggi (“Mud And Stone”, “The Mouth”) le stesse parti vocali si fanno distorte e sofferte, come avviluppate da un suono dal quale non riescono a liberarsi se non sotto forma di spoken word o di evocazioni provenienti da abissi di percezione paragonabili a quelli della prima Anja Plaschg.
A tale crescendo di dissonante tensione, appena diluita dalle scarne note pianistiche della conclusiva “There Is No Moon” si perviene tuttavia dopo quattro brani che, pur contrassegnati dalla medesima traccia tematica, si collocano in più evidente continuità con “Colt”; si tratta infatti di ballate al rallentatore, avvolte da atmosfere dilatate e pur sempre attraversate da schegge di rumore, nelle quali tuttavia riaffiora il fascino tenebroso e sognante delle interpretazioni di Hilary Woods, ulteriormente amplificate da arrangiamenti nei quali si affacciano percussioni, sax e violoncello (“Orange Tree”, “Through The Dark, Love”).
Ambivalente come il microcosmo di sensazioni dal quale è stato originato, “Birthmarks” è un lavoro non sempre agevole né immediato, che tuttavia conferma il profilo espressivo spiccatamente personale di Hilary Woods, artefice di un diario di fragile, tormentata poesia.