the_caseworker_letters_from_the_coast[THE] CASEWORKER – Letters From The Coast
(Hidden Shoal, 2011)

Dislocati tra il fulcro di San Francisco e la vecchia Europa (Svizzera, Inghilterra) e pubblicati dall’australiana Hidden Shoal, [The] Caseworker rappresentano uno degli ormai sempre più numerosi fenomeni di band “delocalizzate” e come tali capaci di integrare nel proprio suono una molteplicità di riferimenti ed esperienze diverse.
Giunta al quarto disco – compresa la raccolta di cover waitsiane “East Of Sunset” – nel volgere di quasi un decennio di attività, la band guidata da Conor ed Eimer Devlin mette in mostra un’apprezzabile maturazione della sua formula di pop chitarristico, che spazia da tensioni garage a scorrevolezza jangly, senza disdegnare lievi acidità psichedeliche.

I dodici brani racchiusi in “Letters From The Coast” presentano infatti un’ampia rassegna della versatilità del progetto [The] Caseworker, capace di spaziare da brani di pronto impatto quali l’iniziale “National Runner” o “Dormer” ad atmosfere più ovattate e ciondolanti come quelle di “The Slow Track” e “Holy Mothers”. Al variare delle vesti sonore, mutano anche le suggestioni evocate dalle agili popsong (tutte sotto i quattro minuti di durata) che compongono il lavoro; così, se i languori delle chitarre della deliziosa “Boats” si muovono lenti e vivaci, espandendo la dolce malinconia dei Teenage Fanclub, l’atmosfera obliqua di “Sea Years” potrebbe fare pensare ai Notwist, mentre i vortici avvolgenti di “Sister Song” si indirizzano verso i Sonic Youth più melodici.

Eppure, l’impianto di fondo del lavoro resta pur sempre quello di una peculiare coniugazione tra garage e dream-pop, a sua volta speculare a quella tra reminiscenze nineties britanniche e più robusti ispessimenti chitarristici in media fedeltà, senz’altro più prossimi al rock alternativo da college radio americana. La formula, nel complesso, funziona a dovere, rendendo “Letters From The Coast” un’opera fresca e godibile, che evita tanto pretese di originalità fini a se stesse quanto le scorciatoie del conformismo a filoni revivalistici di successo, con non altro mezzo che la spontaneità tipica del pop, qualunque sia la veste sonora di volta in volta attribuitagli.

(pubblicato su ondarock.it)

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