GABRIEL STERNBERG – Phantomschmerz
(Klang:hAUS, 2012)

Sospeso tra la pianura padana e una Baviera che nel appare più reale nel mood che immaginaria nelle cartoline, Gabriel Sternberg è giunto al terzo disco di una carriera breve, nella quale ha di gran lunga prediletto l’affrancamento dai riflettori di qualsiasi “scena“ musicale e il rifugio nella penombra, nella solitudine dispensatrice di sentimenti autentici, di un’introspezione serenamente malinconica.

È questa la temperie che ha presieduto anche alla solitaria creazione di “Phantomschmerz”, opera quanto mai sofferta fin dal titolo, il cui significato, per stessa ammissione dell’autore, designa il dolore che si prova quando si viene amputati di una parte di sé.
Al contrario, le sue dieci tracce appaiono placide contemplazioni di sé, rese a tratti persino sognanti dall’accentuata vena melodica di Sternberg e dalla graduale transizione dell’intimismo delle sue canzoni in una forma dai contorni sfuggenti, che mai come questa volta punta su tastiere ed evanescenti torsioni shoegaze.

Senza mai eccedere in feedback né in stratificazioni sintetiche, Sternberg predilige un registro lieve e contemplativo, trasognato più che esplicitamente dreamy, confezionando così una raccolta di canzoni plasmate da un comune sentimento anche a fronte di suggestioni sonore di volta in volta cangianti. Basti pensare all’emozionale piano solo dell’iniziale title track, ai purpurei riflessi di drum machine della successiva “Don’t Ask” e di “Pascal On Drugs”, alla statica tensione che prelude all’impennata elettrica di “Halfway Between Us” o ancora alle due facce di “Photograph / Sea Of Silver”, prima delicato saggio di intimismo acustico, ovattato come quelli di Maximilian Hecker, e quindi breve sinfonia ambientale.

L’incessante trasfigurazione di registri sonori è caratteristica essenziale di “Phantomschmerz”, che non solo lungo tutto il corso dei suoi trentasette minuti, ma anche nel breve volgere di un singolo brano mette in mostra il ventaglio espressivo di un artista capace di riassumerlo semplicemente attraverso il comune denominatore di una sensibilità che oggi in Italia ha ben pochi eguali.
Così, quando scemano gli ultimi sospiri e le note prolungate della conclusiva “White Dream (Dream On)”, resta netta la sensazione di trovarsi in presenza di un prodotto fuori dalle mode più o meno revivalistiche, che nella sola emozionalità del suo autore trova un tempo che è oggi, ma potrebbe essere ieri o un domani indefinito.

http://www.gabrielsternberg.com/

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