sigur_ros_kveikurSIGUR RÓS – Kveikur
(XL, 2013)

Se n’è parlato già allo sfinimento, con la prevedibile alternanza di ritornelli del tipo “non sono più quelli di una volta”, contrapposti a inevitabili accuse di snobismo verso chi da sempre li ha amati con passione travolgente; ne avrete letto più o meno ovunque, dalle sotterranee testate musicali a quelle di moda, quindi tornare in argomento a oltre un mese dalla sua uscita ufficiale potrebbe sembrare quanto meno intempestivo. Ma, per fortuna, al di fuori dalla frenesia del primo arrivato, dei click e dell’indicizzazione, si può lasciare che i dischi facciano il loro corso, sedimentandosi attraverso gli ascolti, oltre le prime e inevitabilmente frettolose impressioni.

Era premessa risaputa che il settimo disco in studio dei Sigur Rós sarebbe stato il primo dopo l’abbandono del tastierista e arrangiatore Kjartan Sveinsson, così come per questa e altre ragioni “Kveikur” era annunciato fin dall’inizio quale diretta e immediata antitesi delle impalpabili rarefazioni del precedente “Valtari”. Stupisce invece non poco, oltre all’improvvisa inversione di rotta, la distanza di appena un anno tra i due dischi, segno dell’urgenza di mettersi in discussione e ricominciare, in una dimensione diretta e “fisica” come non mai.
Se dunque il ciclo d’oro da “Ágætis Byrjun” a “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” poteva sovrapporsi a quello delle stagioni – particolarmente simbolico per una band proveniente dall’Islanda – l’ultimo binomio di pubblicazioni pare vivere sull’antinomia tra incorporeità e materia, benché proprio la brevissima genesi di entrambi possa indurre a interpretarli quali prodotti di un’ispirazione particolarmente fervida, ovvero di una rapidità creativa da “pilota automatico”. Forse la verità sta nel mezzo, da un lato come dato oggettivo della frequenza delle uscite, dall’altro perché per nessun altro come per i Sigur Rós è ormai pressoché impossibile continuare a stupire.

Così è anche per “Kveikur” che, in conformità con le premesse, vede la band islandese irrobustire l’impatto dei nuovi brani, spogliati quasi del tutto di arrangiamenti orchestrali e partiture pianistiche, adesso sostituite da un corposo impianto ritmico e sintetico. Ma se “Valtari” era un po’ l’ipotetica coda di “( )”, nel suo complesso “Kveikur” non è direttamente assimilabile a nessuno dei dischi precedenti, nonostante provi a recuperare, secondo il più diretto linguaggio di “Takk….”, alcune delle impennate emotive di “Ágætis Byrjun” ma anche il profilo più giocoso e colorato di “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust”. Al primo possono far pensare le orchestrazioni che fungono da cornice alla densa grana elettrico-sintetica dell’iniziale “Brennisteinn” (pezzo comunque ricco di suggestioni e, come si direbbe, dal “gran tiro”) e l’incedere epico dell’ottima “Hrafntinna”, mentre al secondo rimandano i coretti spensierati di “Ísjaki”, lieve e vivace ma un po’ stucchevole come una canzoncina da spot televisivo.

A tale trittico iniziale comunque molto efficace segue invece un ripiegamento su binari più epidermici e a tratti persino scontati, che nella migliore delle ipotesi si attestano sotto forma di fluide ballate classicamente pop-rock, recanti appena la firma sonora riconoscibile della band (“Stormur”, “Rafstraumur”). Quando invece Jónsi e soci provano a indossare i panni dei “cattivi”, dimostrano di non trovarsi affatto a proprio agio nel ruolo delle rockstar destinate a incessanti passaggi radiofonici e folle oceaniche, quali “Kveikur” ormai definitivamente li consacra…o li condanna a essere: la percussività vibrante della title track segna il pezzo più “rock” mai scritto dai Sigur Rós, mentre “Yfirborð” e “Bláþráður” eccedono nell’impiego di synth e tastiere, deputato a compensare l’assenza delle orchestrazioni di Kjartan, ma tanto disturbante quanto inadeguato alla scrittura e alle interpretazioni di Jónsi.

In questo quadro, i quattro minuti scarsi di piano cadenzato percorso da frequenze disturbate della conclusiva “Var” appaiono quasi come un facile e gradevole ritorno alla quiete di approdi sicuri e – chissà – come una traccia per nuove, prossime inversioni di marcia della band.
Delle peculiarità che hanno reso unica e coinvolgente la sua esperienza restano dunque ancora lo spirito, un’immutata classe di fondo e la riconoscibilità di qualche residuo contorno o interludio sognante e dell’idioma islandese, che a tratti comincia a permanere quale unico elemento ancora utile a distinguere i Sigur Rós da altre rock-band di dimensione mondiale.

Non è il cambiamento il problema di “Kveikur”, anzi la volontà di mettersi in discussione su nuove basi è senz’altro apprezzabile; resta invece un dato di fatto che lungo i loro quindici anni di attività hanno perso per strada alcuni fattori decisivi per la loro incredibile espressività (ora Kjartan, prima le Amiina), senza tuttavia trovare modo di sostituirli in maniera coerente con le proprie origini.
Poiché dunque sarebbe tanto fuorviante quanto ingenerosa la pur inevitabile considerazione che – ad esempio – una “Viðrar Vel Til Loftárása” non tornerà mai più, pregiudizi di aspettative o di fama della band non possono dunque condizionare la valutazione del lavoro. E come tale, al di là di qualche riempitivo che sa di scarto del passato, “Kveikur” non è del tutto sprovvisto di punti di forza, concentrati appunto nell’accoppiata iniziale e in “Var”, e in fondo gradevole, a patto che non vi si pretenda di ritrovare integralmente il travolgente caleidoscopio di emozioni del quale la sola sigla Sigur Rós era sinonimo.

http://www.sigur-ros.co.uk/

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