liam_singer_arc_irisLIAM SINGER – Arc Iris
(Hidden Shoal, 2013)

Si fa presto a etichettare con l’onnicomprensiva definizione di chamber-folk dischi nei quali l’estro compositivo di un autore si espande a creare poliedrici contesti sonori per le sue canzoni; altrettanto superficiale e fuorviante sarebbe stabilire analogie o – peggio – ascendenze a una formula musicale ricca e ricercata come quella di Liam Singer, giunto con “Arc Iris” al quarto episodio sulla lunga distanza di una carriera che forse non gli ha ancora tributato tutti i riconoscimenti che meriterebbe.

Anche nel nuovo album, Singer riveste i propri brani di una patina lievemente teatrale, veicolata dalla decina di musicisti che vi hanno collaborato, apportandovi un caleidoscopio di soluzioni il cui latente barocchismo è invece contenuto entro canoni espressivi in prevalenza semplici e diretti.
Allora, mantenendo uno spirito lieve e trasognato distante anni luce da fughe psichedeliche (!) e concedendosi appena qualche più pomposa divagazione in una trasfigurata chiave da musical, il polistrumentista originario di Portland pone al centro di “Arc Iris” composizioni al pianoforte, di volta in volta lasciate disadorne e solitarie, come nel breve preludio d’abitudine, poste a base di ballate in penombra (“Nine Ten”, “Forever Blossoming”) o – più spesso – alla guida di vivaci polifonie per coro e orchestra, rese incalzanti da ritmiche oblique (“O Endless Storm”) e vibranti progressioni (“Disappear And Appear”).

Il fulcro di “Arc Iris”, al di là della misurata complessità delle sue orchestrazioni, resta tuttavia la sensibilità melodica di Singer, tanto arrangiatore brillante quanto autore capace di intessere pregevoli partiture pianistiche, che sarebbe un peccato confinare, nella percezione del disco, a semplici interludi strumentali o a pause per riprendere fiato tra le sue più ripide costruzioni orchestrali.

Benché queste ultime catturino inevitabilmente con maggiore facilità l’attenzione, la perizia strumentale e l’espressiva spontaneità del falsetto di Singer induce a privilegiare, nella sua collocazione artistica, le componenti cantautorali di base a quelle del camerismo più o meno barocco, che comunque concorrono a tracciare il profilo di un artista raffinato e moderno che, forse, meriterebbe una considerazione non così distante da quelle di cui godono, ad esempio, Sufjan Stevens e Patrick Watson.

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