SOUTH – South
(Jagjaguwar, 1998)
“Reading the last page of all my books,
hoping not to find a truth I’ve overlooked”
Era il 1998, era il tempo quando l’emo(-core) non aveva subito una mutazione di significato, erano i tempi dell’etichetta post-rock incollata in ogni dove artistico, erano tempi di destrutturazioni e lentezze, ma anche di palpiti vitalissimi anche se narcotizzati nella contemplazione di un respiro o di un paesaggi soffuso da neve e gelo.
Erano anche i primordi di Jagjaguwar, etichetta all’epoca radicata in Virginia che, ben prima di diventare uno dei punti di riferimento più importanti della musica indipendente statunitense, andava costruendosi una propria estetica definita, fatta di soluzioni tanto ricercate quanto semplici, che trovavano sintesi e brillante cifra stilistica nell’ebbra orchestrina dalle suggestioni europee-orientali dei Drunk di Rick Alverson (in seguito mentore dei magnifici Spokane) e nella misconosciuta meteora dei South di Patrick Phelan, in seguito artefice di un proprio breve percorso di crescita cantautorale.
L’intero lascito del terzetto (che oltre a Phelan comprendeva il batterista Tod Parkhill e le ulteriori tastiere, la seconda chitarra e il fondamentale vibrafono di Nathan Lambdin) è riassunto nella sola opera omonima, dalla durata di poco superiore alla mezz’ora e ripartita in sei tracce. È più che abbastanza per essere ricordata quale piccolo e solitario gioiello di sensibilità compositiva e per la capacità in esso dimostrata dalla band di creare atmosfere irreali, pregne di un torpore delicato, reso visionario attraverso le ricorrenti iterazioni di note, tuttavia funzionali alla creazione di essenziali linee armoniche.
Dei sei brani, infatti, oltre agli strumentali di matrice quasi ambientale “Pumphouse” e “Close Value”, che definiscono mood e cornice sonora in apertura delle due ideali facciate del lavoro, quattro sono canzoni scheletriche, cantate/recitate da Phelan in uno stato quasi ipnotico, parzialmente disancorato – com’è quasi inevitabile – dalle ossessive ripetizioni di cadenze narcolettiche e di note stillate da chitarra, tastiere e vibrafono.
È nulla di più appassionante e provocatorio dell’ossessione della quotidiana il contesto nel quale si muovono, con la precisione sottilmente inquietante del meccanismo di un carillon, le quattro istantanee narrate da Phelan e compagni nel lavoro, secondo una parabola di apparente strutturazione melodica, che invece ripiega nella conclusiva “Flannery” sugli ieratici sussurri di un’elegia ambientale all’indolenza, palese fin dai suoi scarni versi: “back against ground covered with frost/ clear ice eyes dyed wth sky/ here comes fog for my blanket/ leave me here this is my new bed/ two days rest just to catch my breath”.
Analogamente, gli spazi urbani deserti di “Smoke”, la surreale passeggiata tra le intemperie di “Walk” e la sublimazione del tempo perso della magnifica “In The Course Of” costituiscono altrettante istantanee di una desolazione solitaria che spoglia l’individuo davanti allo spazio e all’inclemenza atmosferica, in un abbandono addolcito soltanto da linee melodiche appena tratteggiate.
Riducendo ancora più all’osso le segmentazioni ritmiche del post-rock che guardava al jazz (Gorge Trio, Colossamite), smussandone gli spigoli come i colleghi della coeva scena di Louisville in singoli frame sgranati e singolarmente riconoscibili per la lentezza dei successivi piani sequenza, ma anche innestandovi un genuino elemento cantautorale, per quanto endemicamente sotto codeina, Patrcik Phelan e compagni hanno creato un autentico gioiello di understatement, che per perizia realizzativa, capacità immaginifica e originalità della formula meriterebbe di non restare appannaggio dei pochi cultori delle diverse forme assunte da suoni lenti e rarefatti.