Può l’isolazionismo glaciale nutrirsi di frequenze acustiche prodotte da uno degli strumenti acustici dotati di una timbrica in assoluto più calda? Intorno a tale interrogativo può ruotare il nuovo lavoro di Pjusk, duo formato dai norvegesi Rune Andre Sagevik e Jostein Dahl Gjelsvik, che dalle formazioni sotterranee di ghiaccio cui era dedicato il precedente “Tele” riaffiora in superficie presentando in maniera sorprendente un lavoro articolato quasi interamente a partire dal suono della tromba.
Eppure, non si tratta di una sostanziale inversione di rotta per il duo norvegese, poiché le esecuzioni del trombettista Kåre Nymark jr sono tanto profondamente processate da smarrire in buona misura un’identità riconoscibile; non si tratta tuttavia nemmeno di un mero spunto intellettuale vanificato dalle manipolazioni elettroniche, in quanto lungo tutto il corso di “Solstøv” i timbri bassi dello strumento a fiato sono plasmati a formare il substrato di texture ambientali che alternamente ne espandono la persistenza delle frequenze o ne elevano le dinamiche a modulazioni sorprendentemente elastiche.
Lungo tutta l’ora scarsa di durata del lavoro si dipana così una sinfonia di texture e frammenti (a)tonali, nella quale la tromba si trasforma in una sorta di ologramma contornato da una altrettanto spettrale orchestra di drone astratti, screziature ritmiche puntiformi e modulazioni che spaziano dalle onde ghiacciate e quasi silenti della parte iniziale del lavoro agli apici di irregolare acutezza di “Demring” e “Glod”. Quest’ultima in particolare prende una deriva quasi “free”, predominata da timbri alti e stridenti, che si pongono in antitesi con il fragile equilibrio ambientale, interpolato da minuti field recordings, di “Trolsk” e con l’elegia sinfonica contenuta nei dieci minuti della conclusiva “Skimt”.
Dalla cattura di segnali acusmatici avviluppati nel ghiaccio alla trasfigurazione di onde acustiche in una solenne ambience di falde sonore sovrapposte, Sagevik e Gjelsvik offrono una peculiare declinazione isolazionista, senza rinunciare ai tratti distintivi di Pjusk ma amplificandoli attraverso una significativa apertura a linguaggi che “Solstøv” dimostra non essere, in pratica, poi così lontani.