MARKÉTA IRGLOVÁ – Muna
(Anti-, 2014)
Sembra trascorsa un’eternità da quanto l’allora diciottenne Markéta Irglová compariva timidamente accanto a Glen Hansard in quel piccolo miracolo di musica e sentimento di “The Swell Season” (2006). Da allora sono seguite alterne vicende personali della coppia, un film e un Oscar per la colonna sonora (“Once”, con musiche ampiamente tratte dal primo album), un secondo disco non all’altezza del primo (“Strict Joy”, 2009) e infine l’accesso alla musicista di origine ceca a un’autonoma carriera solista.
Maturata dalle esperienze e dai riconoscimenti, la Irglová è ora interprete capace di camminare sulle proprie gambe e soprattutto ben più decisa e sicura dei propri mezzi di quanto non fosse ai tempi dei suoi esordi. È questa la prima sensazione che si ricava da “Muna”, suo secondo disco solista, che al pari del primo (“Anar”, 2011) è nuovamente frutto di una creazione plurale e di suggestioni tratte da luoghi e culture diverse. Se il precedente si rivolgeva a suggestioni mediorientali, “Muna” palesa il processo della sua elaborazione, avvenuta in Islanda con l’assistenza del produttore Sturla Mio Thorisson, mutuando dalla lingua di quel luogo magico il vocabolo prescelto per il titolo, il cui significato di “ricordare” si lega strettamente al contenuto delle undici canzoni che compongono il lavoro.
A guidarle, sono il pianoforte e l’accresciuta estensione vocale della Irglová, che nelle interpretazioni e nelle soluzioni d’arrangiamento denota un’ormai consolidata propensione a un formato arioso e improntato a una certa levigata grandiosità, veicolata dalla partecipazione al disco di ben ventisette musicisti, una vera e propria orchestra che ne arricchisce le canzoni di ritmiche, archi e cori. Tale ampio contorno incarna il contesto di realizzazione dell’album sotto forma di arrangiamenti rarefatti e incantati, oltre che di una spinta corale in qualche modo riconducibile alla tradizione folk islandese (“Point Of Creation”, “Gabriel”), che tuttavia convive ancora con arabeschi orientaleggianti, nell’occasione apportati anche dalla vocalist iraniana Aida Shahghasemi (“Fortune Teller”).
Tutto ciò non innalza tuttavia le canzoni di “Muna” al di sopra di una resa complessiva gradevole ma non supportata da capacità cantautorali sopra la media. Benché non manchino momenti di più pronunciato coinvolgimento (“Time Immemorial”, “Without A Map”, “Seasons Change”), da “Muna” si ricava l’impressione che, probabilmente anche sulla scorta delle esperienze artistiche maturate, Markéta Irglová sia proiettata verso una dimensione artistica da grandi palcoscenici pop nella quale l’ineccepibile perfezione formale prevale sulla naturalezza della carica espressiva.