GRAVENHURST
Roma, Chiesa Evangelica Metodista
27 novembre 2014
Nessuno avrebbe potuto immaginare che la celebrazione, con la timidezza che gli era propria, del decennio del suo piccolo capolavoro “Flashlight Seasons” si sarebbe trasformata, nel volgere di pochi giorni in una sorta di testamento dal vivo da parte di Nick Talbot.
La stessa ambientazione in chiesa e l’invocazione iniziale (“This is Flashlight Seasons, Godwilling”) possono assumere oggi un significato sinistro, come se per il suo addio Talbot avesse scelto un luogo simbolico e, soprattutto, il disco più ispirato e intenso della sua produzione, quello più affine alla sua sensibilità. Accanto a lui sul palco della chiesa, soltanto una sezione ritmica al femminile, che lo ha aiutato a ripercorrere le tante sfaccettature del lavoro, la percezione ipnotica e avvincente delle cui nove canzoni (nessuna delle quali men che splendida) non è depotenziata nemmeno dalle pause di esecuzione determinate dall’avvicendamento strumentale richiesto dall’alternanza tra i brani di riverberi elettrici ed essenziali arpeggi acustici.
Appesantito e un po’ goffo nei movimenti, ma apparentemente tranquillo e persino disponibile alla battuta e a scambiare quattro chiacchiere dopo l’esibizione, dopo l’esecuzione del disco Nick Talbot è tornato in mezzo al sagrato insieme alle due ragazze che lo accompagnavano per eseguire altri quattro brani, nei quali ha dato libero sfogo agli aspetti più roboanti dell’esperienza artistica di Gravenhurst. L’insistita vertigine di feedback a conclusione di una prolungata versione di “Black Holes In The Sand” assume ora il significato sinistro di un’elegia tormentata, che sarebbe stato bello non finisse mai.
Addio Nick, che il vento continui a soffiare sulla sabbia nella quale riposi.
(pubblicato su Rockerilla n. 413, gennaio 2015)