SWERVEDRIVER – Raise
(Creation, 1991)
Fa un certo effetto riparlare di una band peraltro tornata di nuovo attiva da pochissimo, il primo contatto con la quale risale a un tempo in cui le scoperte venivano veicolate anche e soprattutto dai video trasmessi da televisioni musicali dagli intenti non solo commerciali. Eppure, sono state proprio le visioni turbinose, le inquadrature caracollanti e gli adrenalinici reverse del video di “Sandblasted” ad avvicinare un adolescente curioso alla musica degli Swervedriver nel lontano 1991.
Era l’anno della pubblicazione del loro debutto “Raise” e quell’adolescente, che in un indimenticato turbine di acerbe emozioni avrebbe acquistato quel cd all’inizio dell’anno successivo in un importante negozio-etichetta di Firenze (con tanto di scontrino ancora gelosamente conservato nella confezione), poteva trovare nelle stesse immagini echi di affinità appena percepite ma anche disorientanti coordinate estetiche. I primi rimandavano a un altro video dai contorni indefiniti, quello di “Catch The Breeze” degli Slowdive, in particolare per la sabbia spazzata dal vento nel piano sequenza iniziale, mentre le seconde attenevano alle lunghe chiome avvolte in treccine di Adam Franklin e di altri componenti della band, che sapevano più di un vecchio rock’n’roll al tempo stesso grezzo e visionario di quanto non sapessero di altri vortici, quelli delle chitarre dello shoegaze al quale gli Swervedriver sono stati comunemente ascritti.
In effetti, per spessore della grana chitarristica e per la marcata definizione delle parti ritmiche, la band inglese si differenziava in maniera piuttosto netta da altri coevi esponenti dell’estetica shoegaze, tanto da risultare quella di gran lunga più “americana” rispetto ai vari Slowdive, My Bloody Valentine e via discorrendo. In fondo, quella racchiusa dagli Swervedriver in “Raise” è principalmente una declinazione di una psichedelia rock, che del secondo temine mantiene dinamiche e approccio “fisico”, pur diluiti nel corso del lavoro in riverberi via via più evanescenti.
La prima parte della cavalcata dei nove brani di “Raise” è infatti tutto un adrenalinico susseguirsi di un magma sonoro roboante, scandito da un drumming robusto e persino popolato di qualche assolo dal sapore antico, tuttavia calato in un immaginario di fantascienza acida (“Sci-Flyer“, “Son Of Mustang Ford“) che rivela una vocazione psych in fondo solo occasionalmente tradotta in riverberi elettrici morbidi e sognanti. Più spesso, infatti, le stratificazioni distorte sfiorano incastri dissonanti più prossimi alle dissonanze d’oltreoceano o comunque avanzano in spasmi che costituiscono i punti di snodo di brani dal vibrante contenuto emotivo. È così che prendono forma i passaggi più efficaci del lavoro che, proprio come nelle immagini del video sopra citato, trasportano in un ottovolante di emozioni, che plana in picchiata accanto a cascate di feedback (“Rave Down“), si eleva nei timbri puliti di tremolo di esplicita psichedelia (“Feel So Real“), fino a rendere la propria personalissima interpretazione del caos del desiderio – tema caro allo shoegaze – proprio in quel piccolo capolavoro di “Sandblasted”, brano che da solo vale un disco, anzi un’intera carriera.
La forza travolgente del sentimento, resa attraverso metafore surreali, popola infatti l’incalzante successione di loop e vortici distorsivi del brano, che pure parte da un minuto intero di morbidi riverberi e ruota tutta intorno al disperato grido “don’t see what I feel”.
Appena al di sotto della superficie grezza di “Raise” vive però, appunto, quella componente morbida e visionaria sostanzialmente affine allo shoegaze, che gli Swervedriver dimostrano di saper gestire in equilibrio con il loro impeto rock, fino a farvi prendere il sopravvento nei giochi di risonanze che popolano la parte finale del disco, fino ai cullanti echi della conclusiva “Lead Me Where You Dare…“, metà loop trasognati e metà effetti in reverse, che riavvolgono la pellicola di un disco nel quale germi di psichedelia rock sono arrivati a sbocciare in rinnovate istanze descrittivo-emozionali.
A distanza di oltre un quarto di secolo e diciott’anni dopo il loro ultimo disco, anche gli Swervedriver non hanno potuto resistere al richiamo della reunion e, a giudicare dal recentissimo “I Wasn’t Born To Lose You” (2015), si direbbe che la formula non sia mutata: un motivo in più per (ri)scoprire un disco quanto meno particolare nel quadro dell’esperienza del rock alternativo inglese dei primi anni Novanta.