CLUB 8 – Pleasure
(Labrador, 2015)
Nell’ormai ventennale carriera dei loro Club 8, Karolina Komstedt e Johan Angergård hanno attraversato plurimi mutamenti di suono e di stile, mantenendo sempre la loro spontanea vena pop. Se anche in passato il duo svedese non ha mancato di cimentarsi con quel synth-pop ormai tornato prepotentemente (e inspiegabilmente) in auge, da un paio di album a questa parte sembra ormai essersi attestato con decisione sull’impiego di tastiere che, dai sentori balearici di “The People’s Record” (2010), hanno ormai assunto un marcato profilo eighties, anzi proprio direttamente discendente dagli anni Ottanta di quell’electro-pop plastificato (e altrettanto inspiegabilmente), così difficile da estirpare dalla memoria di chi quegli anni li ha vissuti da adolescente.
Del resto, è proprio questo il caso di Komstedt e Angergård, che in “Pleasure”, nono disco firmato Club 8, insistono con decisione ancora maggiore sulla deriva sintetica del precedente “Above The City” (2013). Se tuttavia gli anni Ottanta richiamati in quel lavoro erano anche quelli più schiettamente pop dei connazionali Abba (!), le otto brevi tracce che non portano oltre i ventitré minuti la durata totale di “Pleasure” inclinano in maniera esplicita verso sofisticazioni estetiche austere e a tratti moderatamente oscure, dalle parti dei New Order ma anche della disco electro di quel periodo.
Forma e sostanza, dunque, nuovamente si fondono nelle canzoni di “Pleasure”, votate anche dal punto di vista estetico a un edonismo effimero, che finisce quasi sempre per soffocare la purezza melodica dell’agrodolce indie-pop tipicamente scandinavo, da sempre proprio dei Club. Scampoli se ne colgono appena nell’iniziale “Love Dies”, popsong sospesa scossa da bordate di pulsazioni sintetiche, e in parte nelle dilatazioni di “Kinky Love” e “Promises We Never Meant To Keep”, che la voce suadente della Komstedt riconduce su binari più o meno dream-pop. Altrove, invece, la qualità della scrittura del duo è totalmente soffocata da impulsi robotici, che solo a tratti riescono a saldarsi in maniera coerente con le melodie (“Hush”, “Jealousy Remains”) ma in prevalenza suggeriscono ambientazioni da dancefloor (“Skin”, “Late Nights”), difficilmente tollerabili se non per i nostalgici cultori degli Ottanta tanto plastificati da non meritare alcuna operazione di riciclo.
Si tratta di un’opzione ormai consolidata da parte dei Club, che tuttavia non cessa di suscitare interrogativi, non per una mera questione estetica, ma perché la sua compatibilità con la freschezza pop del duo svedese desta perplessità sempre crescenti.