living_hourLIVING HOUR – Living Hour
(Lefse, 2016)*

Winnipeg, Manitoba, a.d. 2016, o ovest di Londra, all’incirca un quarto di secolo prima? Luoghi, tempi e immagini possono essere concetti relativi, tra le dissolvenze originate da cascate di chitarre liquide e veli di tastiere evanescenti. Tanto per scoprire subito le carte in tavola, l’omonimo debutto dei canadesi Living Hour non può fare a meno di tornare a materializzare i ricordi delle turbinose maree chitarristiche degli Slowdive e, in generale, degli aspetti più sognanti di quella psichedelia divenuta shoegaze ormai da qualche tempo divenuta oggetto di convinta riscoperta, in particolare al di là dell’Atlantico.

Sgombrato il campo dalle inevitabili associazioni, il quintetto canadese confeziona otto brani incentrati su effetti chitarristici, ora languidi ora impetuosi, e sulle armonie vocali della cantante e tastierista Samantha Sarty. Come spesso avviene con gli attuali epigoni dello shoegaze, i brani dei Living Hour sono mediamente lunghi, senza tuttavia con ciò risultare niente affatto prolissi; la loro durata media superiore ai cinque minuti è infatti funzionale ad assicurarne il graduale sviluppo, dispensandone le sensazioni sospese tra terra e cielo, tra quiete cullante e vortici travolgenti.

Tempeste sabbiose e salmastre correnti marine si sovrappongono, confondendo da subito ogni coordinata spazio-temporale fin dal brano d’apertura “Summer Smog”, che introduce nella dimensione piacevolmente indefinita e sognante dei Living Hour, i cui impalpabili strati di tastiere e feedback restano comunque ancorati alla materialità di linee di basso marcate alle interpretazioni eteree eppure decise della Sarty. L’effetto non dura tuttavia molto, poiché già la successiva “Seagull” disegna un volo a pelo d’acqua su onde di riverberi in un crescendo arioso, che vagheggia orizzonti sconfinati nei quali gli elementi si confondono, ancora una volta, in maniera assolutamente inebriante.

Nel cuore del disco, gli effetti applicati alle chitarre tendono ad acquisire consistenza, attraversando il tremolo dallo spiccato sapore nineties di “This Is The Place” e saltuarie asprezze nel corso di “Steady Glazed Eyes” e nel crescendo incalzante che spazza via i languidi riverberi di “There Is No Substance Between”. È l’altra faccia della medaglia del ventaglio espressivo dei Living Hour, che permane comunque sempre in equilibrio nei molteplici snodi e nelle controllate virate che caratterizzano l’intero lavoro. Così, ai passaggi moderatamente ruvidi della sua parte centrale fanno da contraltare le sinuose aperture pop (“Miss Emerald Green”, in odor di Beach House) e le sospensioni trasognate di “Mind Goodbyes”, sublimate infine nei vapori ambientali e nella melodia incorporea della conclusiva “Feel Shy”.

Tutti i tre quarti d’ora del debutto dei Living Hour scorrono comunque attraverso movimenti fluidi e graduali, da assaporare tutti d’un fiato inalandone le brezza senza pensare al dove e al quando, ma godendone la promessa, già mantenuta, di infinite, palpitanti carezze.

*disco della settimana dal 15 al 21 febbraio 2016

http://www.livinghourband.com/

Un commento Aggiungi il tuo

  1. maddie273 ha detto:

    L’ha ribloggato su maddie273.

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