LAURA GIBSON – Empire Builder
(Barsuk / City Slang, 2016)
“Empire Builder” è il racconto di una lunga distanza, di una transizione personale e artistica che ha portato Laura Gibson non solo da Ovest a Est, dalla “capitale folk” Portland a New York, ma anche a ricominciare letteralmente da zero, a guardarsi dentro dopo essere stata costretta a due mesi di reclusione casalinga dopo essersi rotta un piede nel corso di un incendio che le ha fatto perdere effetti personali, strumenti e tracce di canzoni.
Non è dunque affatto fuori fuoco presentare le dieci canzoni dell’album come emblemi di una rinascita, di una ripartenza che coincide con un bilanciamento tra il timido songwriting della Gibson e i tentativi di percorrere con maggior decisione soluzioni in grado di irrobustirne l’immediatezza attraverso arrangiamenti e dinamiche più pronunciate.
Entrambi gli elementi convivono nella composita galleria di “Empire Builder”, nella quale passano in rassegna tentazioni briose (quasi pop nell’iniziale “The Cause” e in “Caldera”), ballate sommesse (la title track pianistica) e lievi aperture cameristiche (“Louis”, “The Last One”), sulle ali degli archi delicatamente orchestrati da Peter Broderick. Quest’ultimo è solo uno degli artisti che contribuiscono a colorare di sfumature gli affreschi in punta di pennello della Gibson, che proprio nella dimensione collaborativa con Dave Depper (Death Cab For Cutie), Nate Query (The Decemberists), Alela Diane e altri ancora ha trovato l’equilibrio tra la sua sensibilità originaria e il suo rinnovato spirito creativo.
Lo dimostra proprio una serie di canzoni gentili, le cui melodie spesso oblique appaiono appunto sospese tra timidezza dimessa e desiderio di comunicare; questo è, in fondo, il carattere che definisce la cifra stilistica attuale di Laura Gibson, che in “Empire Builder” unisce radici folk e ricercatezza pop con una spontaneità tale da farne apprezzare convintamente il passaggio simbolico di una rinascita o, quanto meno, di una significativa evoluzione.