MARK FOSSON – Solo Guitar
(Drag City, 2017)
Non solo moderni interpreti capaci di proiettare il fingerpicking a veicolo di polverose descrizioni ambientali, ma anche interpreti pionieristici continuano a tener viva la pratica delle corde acustiche, dodici o sei che siano. A quest’ultima categoria si può a ragione ascrivere Mark Fosson, la cui esperienza artistica, cominciata con John Fahey, è ripresa attivamente negli ultimi anni, prima con la pubblicazione di una raccolta di vecchio materiale, poi con un album di inediti (“kY”, 2015).
“Solo Guitar” ne è la diretta continuazione, sotto forma di28 nove brevi strumentali nei quali l’artista originario del Kentucky corona la transizione dal primitivismo originario alla purezza cristallina di trame armoniche che, depurate da eccessi virtuosistici, sono in grado di riassumere tutta l’essenza di una pratica antica, ma mai anacronistica. Anzi, storia e presente di Fosson sono qui a dimostrarne una vitalità non circoscritta alle contaminazioni, dotata com’è di piena autosufficienza nella rappresentazione di un tempo indefinito, cristallizzato tra polvere tangibile e trascendenza.