CRADLE – Baba Yaga
(Ultimate, 1996)
Una ballerina in pomposi abiti russi in copertina, decadenti immagini in bianco e nero al centro del libretto, il tenero primo piano di una bambina sulla quarta di copertina e, in mezzo, le foto di un terzetto tipicamente inglese che cammina in abiti demodé sui binari di una ferrovia probabilmente abbandonata. Tinte e immaginario di riferimento raccontano già moltissimo al solo primo sguardo di un disco particolare, destinato a restare gemma “minore” e culto preziosissimo nella discografia di un musicista la cui storia più celebrata risiede abitualmente altrove. Le figure principali ritratte sull’enigmatico artwork del disco sono la ragazza con il vestito lungo a pois, Caroline Tree, e l’uomo con la bombetta e il gilet, ovvero Terry Bickers, che all’epoca aveva già alle spalle esperienze di chitarrista in The House Of Love e di leader degli psichedelici Levitation.
La strana congiuntura astrale che portò all’incontro tra i due, coadiuvati dalla seconda chitarra di Ian Mundawyler e dalla sezione ritmica di Richard Barber e Pete Moon si tradusse in un progetto “one shot” eppure preziosissimo, un affare per pochi appassionati che rispondeva al delicato nome di Cradle e la cui unica testimonianza discografica si ritrova nelle undici tracce di “Baba Yaga”.
Curioso il titolo, curiosi i riferimenti iconografici e lessicali orientali, per un album invece profondamente radicato nella cultura musicale britannica, quella della metà degli anni Novanta ma anche quella risalente a tradizioni sorprendentemente rispolverate da Bickers e dai suoi compagni di viaggio temporanei, connesse sì agli sviluppi della psichedelia dell’epoca – tra wah wah acidi e torsioni inevitabilmente non poi così distanti dallo shoegaze – ma anche e soprattutto a misteriosi contesti bucolici, nei quali il banjo sostituiva agilmente tastiere e chitarre elettriche.
Così prendeva forma “Baba Yaga”, carrellata per certi versi sorprendente tra chitarre effettate e incantata semplicità acustica, che lungo ben oltre un’ora di durata attraversava una varietà di suoni e sensazioni in evidente controtendenza rispetto all’omogeneità stilistica del periodo in cui fu pubblicato. Per questo soprattutto – oltre che per il fatto che Bickers sembrava aver già dato il meglio di sé nelle sue esperienze precedenti – “Baba Yaga” rimase e continua a rimanere fuori dai radar e dalle classificazioni anche degli incalliti estimatori della temperie artistica che dominò la prima metà dei Novanta inglesi. Sono infatti sufficienti i primi due brani in scaletta per marcare la sconfinata sfera d’azione dei Cradle, estesa tra le chitarre roboanti di “Second Nature” e le rarefatte ambientazioni folk – in odor di Clannad – di “Gift Of Unknown Things”, fedelmente incarnate dal cantato di Caroline Tree, deciso e quasi fin troppo enfatico nel primo caso, delicato contrappunto di quello sussurrato di Bickers nel secondo.
Autentico filo conduttore del disco si rivela ben presto essere quello di atmosfere misteriose, variamente incantate e oscure, dispiegate tra la torbida tensione di “Black Tea” e il candore bucolico di “Consequences”, tra le roboanti amplificazioni elettriche di “In The Forest” e il romanticismo placido e malinconico della straordinaria accoppiata di “Home” e “Immortal”. Tali ultimi due brani fungono da preludio al cortometraggio finale, dagli spiccati sentori marini, “Choe’s Room”, oltre sedici minuti di compunta esaltazione delle sfumature seppiate che avvolgono l’intero “Baba Yaga”, testimonianza di una transizione creativa fugace e irripetibile, “minore” appunto ma non per questo meno preziosa nel ricordo appassionato e nella (ri)scoperta presente.